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Messaggio Da Ospite Gio Ott 24, 2013 8:45 pm

Sony Music Italy

Stasera #SamueleBersani ospite di Linus a Il @GrandeCocomero, in onda su @RaiDue dalle 23:35. Il video delle prove: bit.ly/H4EyEB

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Messaggio Da Ospite Dom Ott 27, 2013 7:47 pm

http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2013/10/27/news/e_morto_lou_reed_poeta_del_rock-69597216/

È morto Lou Reed, poeta del rock.

Cantò l'anima scura dell'umanità

UNA VITA nel nome del rock, e insieme della poesia, dell'arte, della magia e oggi anche della perdita, come il titolo di un suo album. E' scomparso a 71 anni Lou Reed, chitarra e voce dei Velvet Underground, e poi anima solista e solitaria, non sempre, perennemente alla ricerca di un suono e di un'anima. Sempre tormentata, con ogni tanto qualche "giorno perfetto".

Una vita a cantare e suonare New York, le ombre della città, il lato selvaggio che poteva essere quello di un marciapiede buio ma anche quello di un'esistenza scura. Una vita difficile da subito quella di Lewis Allan Reed, nato a Brooklyn e cresciuto a Long Island. Lo scorso aprile a Cleveland aveva ricevuto un fegato nuovo, con un trapianto. Ma già l'adolescenza è particolarmente difficile, con il trauma dell'elettroshock, utilizzato per "curare" una tendenza bisessuale. Un'esperienza destinata a segnarlo per sempre, che non reprime e forse aiuta lo sbocciare della sua ricerca creativa, attraverso la scrittura, la regia, la voce in radio in una sua trasmissione. E soprattutto la musica, e soprattutto il jazz, le note blu sempre tendenti al nero. Una ricerca letteraria realizzata attraverso l'elettricità della chitarra e il droning della voce, che non è quasi mai un cantato, e meno che mai un parlato. Una sospensione sonora e poetica quella del primo album dei Velvet Underground, che con pochi accordi dipinge tutta la tensione intellettuale e la linfa vitale di una New York come sempre indescrivibile. E che usa il dolore espresso dall'elettricità di una chitarra amata e maltrattata per chiudere nel passato tutti i canovacci e le categorie del rock come era stato pensato e suonato fino a quel momento, iniziando da The Ostrich che proprio di quegli stilemi si nutre per restituirli trasformati. La suonano con lui i Primitives in cui c'è già il polistrumentista visionario John Cale, che porterà Lou Reed dritto verso i Velvet Underground dopo aver scoperto un tesoro sonoro in un demo di Heroin.

Con l'arrivo di Sterling Morrison al basso e chitarre e Maureen Tucker alla batteria i Velvet Underground inziano dal primo album a ridefinire qualche concetto fino a quel momento imperante. Anche grazie all'innesto nel bacino di talenti e cervelli di Andy Warhol, la cui factory produce esecutivamente e artisticamente il primo lavoro della band. C'è una banana che si sbuccia sulla copertina bianca, ma il vinile è nero. Ed è tagliato dalle prime cicatrici del rock, Waiting for the man, All tomorrow's parties, l'incredibile Venus in furs e naturalmente Heroin. C'è la droga, c'è il sesso, e c'è quindi il rock, tagliato dalla malinconia e dagli sguardi enigmatici di Reed, ma c'è anche una quantità pura di una sintesi mai ascoltata prima, che consegna l'album alla storia. Ci sarà altro per i Velvet Underground, la cui massima altezza è già vicina. Un tour con Warhol, l'arrivo di Nico, cantante tedesca, la separazione da entrambi gli artisti. L'art rock, la decadenza, le definizioni cadono di fronte al secondo lavoro White Light/White Heat. Ma dopo altri due album quella di Reed è già una strada solista.

La trasformazione si compie con Transformer del 1972, secondo album in solitaria, dopo un primo tentativo non brillante ma probabilmente sottovalutato al tempo. Non c'è più la luce guida di Warhol, ma a recuperare Reed arriva David Bowie, che nei suoi spettacoli esegue già White Light/White Heat. E' lui con il fidato Mick Ronson a produrre Transformer, con dentro quella Walk on the wild side che riporta in primo piano l'ombra grazie al contrasto con un mondo sonoro luccicante, in un piano sequenza di storie che influenzerà il modo di narrare della musica pop e rock degli anni successivi. L'album è un successo mondiale, sono anni di magia, ma arriverà ancora una volta la perdita. "Magic and Loss", un binomio che sarà il titolo di un futuro album e che accompagna l'artista verso Berlin, uno dei vertici della sua produzione che Reed pubblica mentre divorzia dalla moglie. L'album non vende nonostante il pesante processo di editing a cui viene sottoposto, e l'industria gli impone di recuperare.


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Messaggio Da Jazzbianco Gio Nov 14, 2013 2:36 pm

Rolling Stones, il concerto di Hyde Park arriva al cinema in 2K. Il trailer

Il film del concerto che i Rolling Stones hanno tenuto ad Hyde Park lo scorso luglio, 44 anni dopo il leggendario live del '69, verrà proiettato nei cinema, ma per un solo giorno. Giovedì 5 dicembre sarà possibile rivivere le emozioni dei due live londinesi della leggendaria rock band che verranno proiettati in alta risoluzione 2K nelle sale di tutta Italia e come anteprima del Medimex di Bari, in programma dal 6 all'8 dicembre.

La serata sarà preceduta dall'introduzione di Ernesto Assante e Gino Castaldo: "Non c'è nessuno, davvero nessuno, nemmeno McCartney, che abbia un pubblico che vada dai nove ai novant'anni come gli Stones. E, attenzione, i ragazzi più giovani vengono a vedere gli Stones perché sono un classico, come i classici della letteratura o della pittura, o del teatro e del cinema. Qualcosa che almeno una volta nella vita va vista, per sapere com'è.

Trailer
http://www.muzu.tv/rockol/nexo-digital-presenta-the-rolling-stones-hyde-park-live-il-5-dicembre-al-cinema-music-video/2106190/
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Messaggio Da Laurel-EF Ven Nov 15, 2013 8:40 am

AAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHAAHHHHHHHH Jazz grazie! grazie! grazie! Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 Notizie musicali - Pagina 11 71593612 
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Messaggio Da Levnicolaievic Ven Nov 15, 2013 12:23 pm

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Messaggio Da Jazzbianco Gio Nov 21, 2013 5:10 pm

Interessante intervista a Michele Canova.

http://www.rollingstonemagazine.it/musica/interviste-musica/rs-interview-michele-canova-litalia-non-e-rock-e-pop/

RS Interview: Michele Canova: l’Italia non è rock. È pop!


È il produttore più ambito d'Italia. Dietro tutti i dischi più venduti c'è sempre il padovano maniaco dei Cure. Che da un anno s'è trasferito a Los Angeles, perché "saturato" dal mercato nazionale. Con lui abbiamo fatto una lunga chiacchierata...

Notizie musicali - Pagina 11 MicheleCanovaIoffridaMichele Canova Iorfida nel suo studio

Di Paolo Madeddu

A guardare la classifica dei dischi italiani più venduti, salta fuori sempre lui. Michele Canova Iorfida è in questo momento il produttore più ambito d’Italia, e da gente che fa cose diversissime. Cantautori (Luca Carboni), ex talent (Alessandra Amoroso), rapper (Fabri Fibra), interpreti affermate (Giorgia), popstar moderne (Marco Mengoni), popstar esportabili (Tiziano Ferro), popstar nazionali (Jovanotti). C’è di tutto, tranne – forse l’avrete notato – il rock. E dire che lui, quarantenne cresciuto a Padova, ha passato la gioventù in un bagno di grunge. Gli abbiamo chiesto conto anche di questo in una chiacchierata che, dobbiamo avvertirvi, è diventata lunghissima perché lui è torrenziale e appassionato, e gli argomenti su cui uno come lui può dire cose intriganti sono tanti… Quindi l’intervista è suddivisa in due parti, la prima è un po’ più generale, la seconda forse sarà intrigante per addetti ai lavori o musicomani interessati a come nasce un disco e come funziona la musica oggi.

Il rock italiano, quel poco che c’è, non ti ha mai cercato.
“Non è successo. Sai, conta molto anche il curriculum, e io vengo giudicato per Ferro, Ramazzotti, Lorenzo”.

Ma con questa esposizione al pop, i tuoi gusti sono cambiati?
“Beh, al mio liceo, a Padova, tutti ascoltavano Doors, U2 e Led Zeppelin – e anch’io, anche se tuttora la mia band preferita sono i Cure. Ma a 16 anni spendevo tutta la paghetta nelle cose nuove che arrivavano, Mudhoney, Screaming Trees, Soundgarden. È stato bello vedere quelle band decollare. Poi, sparendo il grunge, è cominciato il pop programmato, la mia reazione è stata innamorarmi dell’r’n’b. Lì è stato decisivo l’incontro con Tiziano Ferro, io non amavo l’r’n’b, mi sembrava una cosa tecnica, è stato Tiziano Ferro a farmi una testa così con R. Kelly, a me sembravano basi pop molto ‘ignoranti’, con l’enfasi sulle battute. In realtà era già l’inizio della contaminazione col pop, perché l’r’n’b di inizio anni ’90 era molto suonato, era per intenditori”.

Scusa, torno un attimo sul rock – sai, il giornale e i lettori partono da quella roba lì. Perché il rock sta male?
“Sta veramente male o si sta rigenerando in qualcos’altro? In America il folk-rock è fortissimo. E non solo Mumford & Sons e Lumineers. C’è tutto un immaginario e dei gruppi che qui non arrivano, e del resto a volte sono fortissimi nel loro stato, come in California i Dawes, Edward Sharpe and the Magnetic Zeros. E poi c’è parecchio metal. I generi in America non muoiono mai, a partire dal blues. C’è spazio per tutto, è tutto meno legato alle mode”.

Quindi secondo te è soprattutto l’Italia che ha un problema col rock?
“Penso proprio di sì. Del resto lo dicono in tanti, non ci appartiene”.

Eppure negli anni ’90 c’erano Ligabue, Litfiba, Vasco negli stadi.
“Mah, per me Vasco è un cantautore, Ligabue pure, e i Litfiba erano quelli sperimentali di 17 Re. L’Italia non è rock, è pop. C’è gente che aveva delle cose da dire e ha usato il rock come mezzo. Come prima facevano i cantautori, che si ispiravano smaccatamente a Bob Dylan, perché ci ispiriamo sempre a cose estere. Oggi cambia il genere ma Fedez fa la stessa cosa, per lui il rap è un mezzo per comunicare, come per Fibra. Lorenzo è un caso particolare, lui ha superato tante fasi, ha sempre usato tutto. A me il rap non piaceva ma il suo disco Lorenzo 1992 lo ascoltavo. Lui sa prendere tutto e rimanere se stesso. Mi sembrava impossibile pensare che un giorno avrei prodotto i suoi dischi. Anche se ascoltavo più Carboni”.



Alla fine, hai prodotto tutti e due. È che ti cercano proprio tutti.
“E io scappo a Los Angeles. Sono arrivato a una specie di saturazione del mercato italiano. Un anno fa ho aperto la mia società, ho preso uno studio all’interno dei Sunset Studios, lì sono passati i dischi di Led Zeppelin, Doors, Rolling Stones”.

Cervello in fuga? Disilluso dal tuo Paese?
“No. Voglio stare dove succedono le cose. Non è snobismo, sono consapevole di quanto è grandioso quello che ho avuto finora. Senza Tiziano sarei rimasto a Padova, non sarei niente. Fortuna, talento e passione mi hanno assistito, anche quando mia madre mi diceva di lasciar perdere”.

Come hai iniziato?
“Uscito dal classico mi sono iscritto a filosofia. Avevo studiato violino al conservatorio ma l’insegnante insisteva rudemente che non era roba per me… Quando invece mi sono trovato tra le mani i primi sintetizzatori, i computer col midi, l’Atari ST, mi sono appassionato. Ho iniziato a fare cosette locali. Nel 1992, al mare, ho incontrato Leandro Barsotti, cantautore e giornalista delle mie parti: avevo un campionatore, lui si è incuriosito e mi ha tirato dentro un mondo che non conoscevo, non sapevo nemmeno cosa facesse un produttore. Mi sono trovato a fargli da arrangiatore. Da allora ho fatto un sacco di gavetta, robe dimenticatissime. All’inizio degli anni ’90 di colpo tutti facevano dischi, era diventato più facile. Ma nel frattempo c’erano i licenziamenti, le fusioni tra le major. Lavoravo con budget inesistenti, mi arrangiavo, facevo davvero tutto, anche il fonico. Avevo i tavoloni di legno del Brico coperti di tastiere e computer, e l’insonorizzazione fatta con i cartoni delle uova. Tutti i soldi che guadagnavo li reinvestivo in elettronica. Intanto imparavo sul campo i fondamenti della composizione, i dettagli su struttura, lunghezza, inciso, tonalità della canzone. Finché un giorno Mara Maionchi, dopo il lavoro con Barsotti, mi ha presentato un giovane su cui voleva puntare, Tiziano Ferro. Sono passati 12 anni. Sembra ieri che io e Tiziano andavamo a Padova a mangiare al Burger King. Ma abbiamo fatto 5 dischi insieme”.

Quelli che oggi ti scelgono, cosa si aspettano? Un suono, un approccio?
“La verità è che in Italia c’è sempre meno scelta. Devo dire di no a un sacco di gente, mi spiace ma non ho proprio tempo. Quando ero giovane i produttori erano molti di più. La crisi della discografia è stata enorme, e chi è più forte o ha il coraggio di investire si ingrandisce. Io ho sempre scelto di rilanciare. Perché ho veramente la passione di stare 15 ore in studio e giocare coi sintetizzatori. Ora non vado via per presunzione, se vado in America è anche per essere l’ultimo. L’italiano è una forza nella costa west per tutto, tranne che per la musica. Design, ristoranti, auto, chef che girano in Ferrari… la moda un po’ meno. Musica, niente, ma è lì che nasce il 90% della musica del mondo. La mattina mi alzo e trovo gente leggendaria. E avevo bisogno di questo, dell’adrenalina, dello stimolo. Qui le sfide erano solo con me stesso. Ora in America magari ne esco schiacciato, tutto può essere. Ho scelto apposta lo studio famoso per respirare questa cosa qui. Per ora sono il ragazzino che risolve problemi al computer di Glyn Johns, e lui mi dice ‘Uh, ti devo un favore, passa quando vuoi’”.

Il tuo pantheon di produttori?
“Rick Rubin sicuramente. Non l’ho mai conosciuto, anche se alle nove di sera l’ho visto arrivare al Sunset Sound con i Black Sabbath per fare un overdub di armonica nello Studio 2 dove i Beatles hanno suonato l’ultima volta nel ’69, e dove io ho fatto Marco Mengoni. In tutte le sue cose è mitico, è un produttore vecchia scuola, non mette le mani, ha il suo fonico, giudica la canzone. Mi piace Dr. Luke che a Los Angeles ora come ora è Dio, perché ha saputo fare songwriting. Che è l’ulteriore sintesi, il produttore che scrivere anche il pezzo, che è una cosa che qui ho potuto iniziare a fare grazie a Lorenzo”.

Italiani?
“Mauro Malavasi – ecco, lui è il mio vero idolo: ha lavorato con Dalla, Bocelli, Carboni. I suoi dischi sono stati campionati da Michael Jackson e R. Kelly. Lui mi faceva dire ‘Uh, chi è questo genio’. Faceva milioni e milioni di copie, a un certo punto anche lui è andato in America ma non stava bene in Usa, voleva i tortellini e i portici, New York lo straniava, allora Dalla lo riportò in Italia”.

Giovani?
“Mi sembra che non ci siano”.

Dicono che sei ruvido.
“Ho questa fama con gli artisti, dico quello che penso”.

Hai avuto problemi?
“Con Tiziano mai, eravamo due ragazzini, abbiamo scoperto il grande gioco della musica insieme. Ma la prima volta che incontrai Jovanotti, Lorenzo disse al manager ‘Non farmelo mai più trovare’. Quando era venuto da me era in difficoltà con le vendite, io ero il ragazzetto del momento che stava andando bene con Tiziano Ferro. Solo che dissi ciò che pensavo del disco che mi aveva portato (era Buon sangue). Esagerai, dissi cose che non avrei dovuto dire di fronte agli altri. Pensai ‘Me lo sono giocato’, ma lui fu molto coraggioso e intelligente. Certo la pensavamo proprio in modo opposto, ci siamo incazzati anche, ma per robe tipo la batteria entra qui – no, la batteria entra dopo. È che alla fine siamo tutti e due presi dalla musica come da ragazzini”.



Sì, dà questa sensazione.
“Lui è uno presentissimo, se potesse starebbe qui tutto il giorno con me in studio. Anche Fibra è stato difficile da convincere su certe cose. All’inizio fui io a insistere per lavorare insieme, avevo avuto un incidente in moto pauroso, lo ascoltavo in ospedale, il suo disco mi faceva stare meglio, lo facevo sentire a tutti gli infermieri – sembravo un rincoglionito, del resto avevo pure preso una botta in testa. Così lo andai a cercare; lui era diffidentissimo, oltre tutto all’epoca odiava Lorenzo. Peraltro, se adesso gli faccio qualche base è proprio per merito di Lorenzo, diciamo che la mia carriera di compositore parte da lui. Le basi le facevo per divertirmi, perché tutte queste tastiere ti tirano fuori un po’ di creatività, ogni nuovo acquisto mi portava a giocare e studiare lo strumento”.

Delle nuove generazioni di artisti chi hai conosciuto altrettanto preso dalla musica?
“Stranamente, i giovani lo sono molto poco. I meno giovani, molto di più. Tipo Zucchero. È come Lorenzo: devi sentire questo, che bello, qui tu cosa faresti? Questo approccio entusiasta, di scoperta continua, nei giovani non lo vedo. Un altro è Gianni Morandi, gli piace tantissimo parlare di arrangiamenti, confrontare il modo di lavorare che aveva assieme a Ennio Morricone, con quello attuale. Per me è un invito a nozze, mi piace tantissimo parlare con i musicisti, specie se ascoltavo i loro dischi. L’altra sera abbiamo fatto una cena io, Carboni e Antonacci e abbiamo passato metà serata a parlare di Lucio Dalla, sono saltati fuori aneddoti fantastici, ci divento matto. La musica è cambiata ma a me interessa ancora sapere come e perché nascevano i dischi, i retroscena, mi entusiasma”.

Qui finisce la prima parte e si entra nella tecnica del producer!

Ma spiegami, tu inizi a lavorare pensando: “Ho qui Antonacci, quindi devo fare questo è quello”? E come arrivi, che so, ad Alessandra Amoroso?
“Lì me lo ha chiesto la casa discografica, ma soprattutto Tiziano: ha sempre detto che credeva in un salto di qualità di Alessandra. Maria De Filippi ha favorito la cosa, gli ha chiesto, penso in trasmissione, se avrebbe voluto scrivere un pezzo per la Amoroso, lui ha risposto che avrebbe scritto volentieri tutto l’album. Comunque, è bello discutere dischi a tavolino e parlarne con gli artisti. Ma la verità è che il disco nasce mettendogli le mani sopra. Non ho mai discusso un pezzo prima, se l’ho fatto, quasi sempre mi sono contraddetto. È solo provando due, cinque dieci arrangiamenti diversi, o giocando con gli strumenti e i suoni, che si sente se una cosa ti colpisce e piace, è ancora un mestiere molto istintivo, almeno per me”.

Ma una casa discografica ti dà carta bianca o hai dei diktat?
“No. E comunque io dico di no all’80% di quello che mi propongono. E mi propongono quasi tutto. Nel caso di Mengoni è stata la Sony a chiamarmi. Ma una cosa che mi ha insegnato Celso Valli è che il rapporto va creato con l’artista, non con la casa discografica. Sembra banale, ma in Italia per anni non è accaduto”.

Se un tuo disco non va bene come metabolizzi?
“La verità è che io so già che non va bene. Il livello brutto, il disastro lo so già mentre lo faccio”.

Sorprese ne hai avute?
“Non dico mai ‘Venderemo centomila copie’. Posso sentire che il pezzo piacerà, andrà tanto in radio. Le cose negative si capiscono dall’alchimia in studio, io posso cercare di sovvertire, ma il disco non è mio, è dell’artista. Però sono rimasto meravigliato da Anima di Damiano, che usciva da X Factor“.


Quello con la barba, vero?
“Io di X Factor feci solo Giusy Ferreri, vendite enormi. Allora dissi: ‘ok, con i talent può bastare’. Invece, mi portarono Damiano. Il disco mi piacque tantissimo, secondo me facemmo un bel lavoro, non mi sono mai spiegato come mai non abbia fatto il botto”.

Non c’era il personaggio?
“Beh, in tv bucava, è arrivato in finale. Quindi il suo flop mi ha spiazzato. Un altro caso è Time out di Max Pezzali, in cui però ad avere l’ultima parola era sempre Claudio Cecchetto. Lì secondo me sbagliarono i singoli, dovevano far uscire Time out, loro pensavano che li prendessi in giro. Comunque dai, il 90% delle volte ho avuto buoni risultati, direi”.

E in America cosa farai?
“Sony-Emi mi ha contrattualizzato a livello mondiale in esclusiva. Ho detto: mi impegno ad andare a L.A. e pago tutto io, ma voi mi mettete in contatto con gli autori americani. Mi dò 5 anni di tempo per provare a imbastire una carriera. Per cominciare mi hanno mandato una venezuelana, una top-liner che sta per fare il suo disco. A Los Angeles il lavoro è così: il produttore fa la base. Più figo sei, più ti mandano bravi top-liner, che sono gente che fa melodia e testo. Che arrivano e in un’ora cantano su questa base che non hanno mai sentito, a meno di non essere i più strafighi che hanno preteso di sentirla per email altrimenti non si muovono. I pezzi di una popstar come Rihanna nascono così: base su cui un cantante/compositore mette melodia e testo. Quindi ecco che nei prossimi giorni saremo in studio io, una Venezuelana che ha lavorato con Shakira, un canadese mandato da Drake – e nessuno di noi tre si conosce. Oppure, alla major c’è uno che dice ‘Abbiamo un autore molto importante in Israele, deve lavorare a Los Angeles, mandiamolo da Canova che è uno appena arrivato, ma ha lo studio figo’”.


Questo modo di lavorare enfatizza il divario tra cantanti solisti e gruppi.
“Detto tra me e te, è anche un motivo per cui sta peggiorando la musica”.

Perché detto tra me e te?
“Perché se dobbiamo dirlo ai lettori possiamo dirlo in maniera migliore: è uno dei motivi per cui si sta ampliando il divario tra musica buona e musica brutta. La gente brava viene tutta risucchiata verso l’alto. A Dr. Luke gli arriva la topliner di turno, la più brava di tutte; lui è il più veloce e sintetico a capire cosa fare, ci lavora poi dà tutto a Rihanna che ci mette del suo, assistita dalla coach vocale che prende 5000 dollari a canzone e le dice cose tipo ‘Per questa canzone pensa a tua nonna così ti intristisci’, o dà istruzioni per lo studio, tipo: ‘Per questa canzone Rihanna canterà con dei pupazzi rossi attorno, perché questo influenzerà la sua intenzione vocale’”.

E intanto come è cambiata la canzone pop?
“È sempre più compressa, in tutti i sensi. La musica è vita, e tutte le arti sono un riflesso della vita e cose che ti sono successe. E questa è un’epoca di sintesi. Il ritornello negli anni ’90 arrivava dopo un minuto e venti secondi, nel 2000 dopo un minuto, ora dopo 50-55 secondi. E se metti il ritornello all’inizio è ancora meglio”.

Ma era già la regola di Nile Rodgers. Perlomeno con gli Chic.
“Lui lo ha capito per primo. Che poi la cosa permette, a chi lo desidera, di far funzionare tutto al contrario, non rivelando: la gente si aspetta il ritornello, e tu invece crei tensione e glielo dai dopo due minuti e mezzo. Perché comunque oggi il pop è molto condizionato dalla dance, più che nei decenni precedenti. Nella dance, però, ci sono grandi attese, c’è la costruzione, il build-up è quasi più importante dell’inciso. L’esempio massimo credo sia…”.

Rihanna?
“Il pezzo con Calvin Harris. Mi ricordo che fu Lorenzo a chiamarmi dicendo ‘Devi sentirlo assolutamente’, io ascoltai e dissi: ‘Che cavolo è, sembra Saturday Night di Whigfield!’. È solo col secondo ascolto, quando sai che dopo carica, che fai caso a quanto devi aspettare, all’attesa e alla sottolineatura. Poi, comunque, il pop è sempre stato influenzato da cosa c’è in classifica. Il che non significa che tutto ciò che è in classifica sia bello, ovviamente, alcune cose non mi piacciono per niente”.


Parliamo anche di suoni. C’è una selezione naturale? E dipende dal passaggio dal cd all’mp3, dallo stereo alle cuffie, all’ascolto coi computer?
“So che c’è chi ha analizzato tecnicamente le hit degli ultimi trent’anni lavorando con gli spettri di frequenze. La differenza tra mp3 di buona qualità e un brano non compresso c’è sempre, quasi qualsiasi persona può sentirla. Ma non credo alla selezione dei suoni indotta dall’mp3, anche perché l’mp3 soprattutto con la qualità superiore dei codec o con la possibilità di avere un rate variabile di encoding a seconda di quante informazioni sono contenute in quel preciso secondo nel pezzo, fa sì che in un pezzo con grande dinamica e molti strumenti il codec sia in grado per un secondo di salire quasi al non compresso, poi andare verso un decrescendo, un momento con meno strumenti – operando la compressione lì. Quindi non puoi dire che mp3 o streaming cambiano i suoni. Però puoi dire che cambia il missaggio, cioè come questi suoni vengono incapsulati dal fonico. Il formato toglie estremi quindi tu comprimi la musica. Ma il vecchio metodo del ‘louder is better’, che ha portato al disastro tanti vecchi dischi, su tutti l’album dei Metallica inascoltabile a basso volume, è stato abbastanza abbandonato, la ‘loudness war’ è finita e si è tornati a un minimo di dinamica in più. Non ai livelli di quando una volta sentivi un disco dei Supertramp con un impianto pazzesco e la differenza tra strofe e incisi poteva essere anche di 18-19 db. Oggi tra volume di strofa e inciso la differenza è 3 db, ma in qualche caso anche 1 db. È difficile creare emozione con questo espediente. La prima fonte di emozione nella musica è il volume, pensa solo ai Nirvana quando arrivavano all’inciso. Quindi come fai a emozionare oggi? Con l’arrangiamento. Anche facendo grandi svuotamenti. È vero, se svuoti il volume rimane inchiodato a quel livello lì – ma le orecchie devono sentire lo svuotamento, e soprattutto la mente deve sentirlo. È tutto un gioco nuovo, lavorare con poca dinamica e riuscire lo stesso a emozionare. La sfida è tutta lì.

E il cambiamento mentale dell’ascoltatore nella fruizione?
“Quello è evidente. Più ancora adesso con Spotify, lo streaming. L’mp3 è vecchio, iTunes secondo me è destinato a finire. Un abbonamento è più sensato. Ma l’mp3 in questo senso aveva già fatto la differenza: più la musica è volatile e più è fatta per un dispositivo mobile. Ora la musica pesando pochissimo e potendosi spostare ovunque diventa facilmente comprabile dai ragazzini e l’età si sposta verso il basso, perché il 40enne medio non riesce a tener dietro tecnicamente allo scenario che cambia. E anche questo è un fattore che favorisce una crescita del teen pop. Inoltre lo streaming cambia la considerazione per la musica, ha meno peso in tutti i sensi, diventa più intrattenimento. Non vorrei dare una connotazione negativa, non sono uno di quelli che ‘ah, il digitale rovina tutto, l’analogico sì che suona bene…’. TUTTO suona bene. Conta la testa e la mano di chi usa le cose, abbiamo gli strumenti per far suonare come un nastro una registrazione digitale freddissima. Ci sono tecnologie ed esperienza per far suonare bene le cose. Ma lo streaming alla lunga pone una condizione emotiva che non è facile da capire per le generazioni precedenti, ed è che se io ho tutto, non ho niente. Non sono certo contro lo streaming, ma fa parte del mio lavoro tener conto che la gente si rapporta alla musica in modo diverso”.

L’Italia forse è un caso particolare.
“Sì, e anche questo rende difficile lavorarci. Se ho capito bene, i dati di Spotify Premium indicano un’utenza italiana di 50mila, contro 500mila nel Regno Unito. Intanto il cd crolla del 20% e il digitale sale del 3%. Che è un aumento inconsistente come quello dei vinili: c’è, ma è irrilevante. Poi è impressionante la stagionalità del mercato: da aprile a settembre ci sono settimane in cui se vendi 1800 copie sei primo in classifica. Mentre da ottobre ci vuole un po’ di più, la Amoroso la prima settimana ne ha fatte 25mila. La vera valutazione la fai sulla permanenza”.

Ora si parla del fenomeno del rap.
“I ragazzi che comprano album hip-hop li acquistano subito, il giorno dell’uscita, credo che ci sia una complicità con l’artista per mandarlo appositamente al n.1, c’è un rapporto di questo tipo. Poi qualcuno che fa il disco più ricco ed elaborato continua a vendere. Però, potrei sbagliarmi, ma secondo me l’hip-hop non sarà mai un fenomeno per il grande pubblico, si assesterà”.

Anche se ora la commistione col pop è sempre più pronunciata? I rapper italiani cantano molto.
“Non è che mi stupisca, la commistione è una cosa mondiale. Nel rap italiano sta avvenendo come in Usa, mixare strofe rappate e incisi r’n’b. Fedez è quello che cerca di farlo di più, forse Fibra è quello che lo ha fatto per primo e per quanto mi riguarda avrebbe dovuto farlo anche di più. Emis Killa un po’ canta. A me piace questo Giaime, me l’ha fatto conoscere la figlia del mio amico Pino “Pinaxa” Pischetola, ascolta Minorenni coi trampoli.

E tu? Come è cambiato il tuo rapporto con la musica? Ora sezioni ogni cosa che senti?
“Chiunque cerchi di fare musica per mestiere ha questo approccio, anche il ragazzo che vuol fare il chitarrista e ascoltando i Led Zeppelin si concentra sulla chitarra. È ovvio che dopo un po’ di anni senti tutto su due piani, uno emozionale e uno di scomposizione, io mentre sento il pezzo di Drake non posso non chiedermi come mai la cassa è così rotonda, e domandarmi perché io non riesco ad arrivare a 60 hertz così pulito. Poi parte del nostro lavoro è cercare di copiare per assorbire. Imparare ogni dettaglio e sovvertirlo. E chiedersi ma perché un suono che ha un decay che dura due secondi non lo metto per un minuto, per farlo diventare etereo. Oppure un riverbero, farlo durare 30 secondi alla James Blake. Copiare non è una roba brutta, è anche una cosa che si fa per imparare, proprio come a 16 anni rifai alla chitarra i Led Zeppelin. O nel mio caso, i Cure”.
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Messaggio Da Jazzbianco Ven Nov 22, 2013 7:52 pm

http://www.musicfirst.it/it/musica/pop-italiano/giorgio-gaber/storie-del-signor-g.html

GIORGIO GABER
Storie Del Signor G


Una delle più importanti iniziative della Fondazione Gaber per ricordare il decennale della scomparsa dell’artista: "STORIE DEL SIGNOR G", la ristampa dell’unico documento video, esplicitamente voluto da Gaber, che testimonia tutto il suo Teatro-Canzone, da “Il Signor G” datato 1970 ai 20 anni successivi.

Il cofanetto, registrato al Teatro Comunale di Pietrasanta nel luglio del ’91, contiene quattro ore di filmati che ripercorrono tutto il Teatro-Canzone.


Gaber si occupò personalmente della scelta dei brani, della scaletta, delle inquadrature, oltre che del montaggio finale e, grazie alla sua nota meticolosità nella regia e alla cura dei particolari, risaltano quegli aspetti che lo hanno reso uno dei più grandi entertainer: la straordinaria mimica e l'incredibile abilità comunicativa, creando così una connessione unica tra palcoscenico e platea.
Suggestionato dalla visione di questi filmati, Mario Monicelli volle Gaber nel suo film “Rossini Rossini”.
Le immagini dei DVD sono state accuratamente restaurate e rimasterizzate, pensate per le esigenze di quel pubblico giovane che non ha avuto modo di conoscerlo.
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Nov 27, 2013 10:26 am

http://www.sonymusic.it/it/news/al-la-ripubblicazione-dei-tesori-della-cramps-records-da-oggi-area-demetrio-stratos-roberto-cio

AL VIA LA RIPUBBLICAZIONE DEI "TESORI" DELLA CRAMPS RECORDS: DA OGGI AREA, DEMETRIO STRATOS, ROBERTO CIOTTI E "1979 IL CONCERTO - OMAGGIO A DEMETRIO STRATOS"

A soli quattro mesi dall’acquisizione della CRAMPS Records, SONY Music riporta alla luce i primi “tesori discografici” dell’etichetta simbolo della musica ribelle degli anni ’70. Per tutti gli appassionati, da oggi 29 ottobre sono infatti in vendita, a tiratura limitata e numerata, alcuni “gioielli” della musica italiana:

- il box di Arbeit Macht Frei degli AREA, che contiene il disco originale in vinile e CD, un poster e la sagoma in cartone della pistola contenuta nel disco originale (l’album è stato rimasterizzato nel settembre 2013);

- il box di Caution Radiation Area degli AREA che contiene il disco originale in vinile e CD, 5 cartoline degli artisti (l’album è stato rimasterizzato nel settembre 2013);

- il box di Cantare La Voce di DEMETRIO STRATOS, che contiene il disco originale in vinile con libretto e CD (l’album è stato rimasterizzato nel settembre 2013).

Arrivano inoltre in tutti i negozi di dischi, le riedizioni di Super Gasoline Blues e Bluesman di ROBERTO CIOTTI, oltre al cofanetto di 1979 IL CONCERTO - OMAGGIO A DEMETRIO STRATOS (2 CD + 2 DVD + libretto), registrazione del concerto-evento in tributo al grande artista tenutosi all'Arena Civica di Milano il 14 giugno 1979 a cui parteciparono, tra gli altri, Guccini, Finardi, Venditti, Vecchioni, Banco del Mutuo Soccorso e Branduardi.
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Dic 11, 2013 12:23 pm

http://www.tvblog.it/post/462481/sanremo-2014-nomadi-alice-e-de-andre-tra-i-big-baglioni-e-paoli-ospiti?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+tvblog%2Fit+%28tvblog.it%29

Sanremo 2014: Nomadi, Alice e De Andrè tra i big, Baglioni e Paoli ospiti?
Scritto da: Massimo Galanto - mercoledì 11 dicembre 2013

Tra i cantanti ex talent show ci sarebbe soltanto Giusy Ferreri e forse Elhaida Dani. In forte dubbio il trio Silvestri-Fabi-Gazzè

Il quotidiano Libero nella sua edizione odierna ha annunciato dieci dei 14 big che prenderanno parte con certezza al Festival di Sanremo 2014. La lista è composta dal duo inedito Alex Britti-Bianca Atzei, dalle donne Arisa, Dolcenera, Alice e Giusy Ferreri, dagli uomini Mondomarcio, Francesco Renga, Cristiano De Andrè, Francesco Sarcina e dal gruppo Nomadi.
Fino al 18 dicembre, giorno nel quale Fabio Fazio nel corso del Tg1 delle ore 13.30 annuncerà il cast completo, saranno individuati gli altri 4 big. Da segnalare che la Ferreri, sempre stando a Libero che invita i lettori a diffidare dalle “bufale” del web - sarà l’unica rappresentante dei talent show. Anche se, a quanto pare, qualche possibilità la ha Elhaida Dani, la ragazza albanese che ha vinto The Voice of Italy e i cui due brani presentati sarebbero in queste ore sotto ‘osservazione’ del direttore artistico Mauro Pagani.
Tra i big potrebbe non esserci il più volte annunciato trio (”sinistrorso”, così lo definisce il quotidiano diretto da Belpietro) formato da Daniele Silvestri-Niccolò Fabi-Max Gazzè.

Inoltre, ci sarebbero novità importanti anche sul fronte degli ospiti, all’insegna del made in Italy. Infatti, oltre alla già confermata Raffaella Carrà, sarebbe sicura la presenza di Claudio Baglioni e di Gino Paoli. Il primo, secondo Libero, è un uomo-share in quanto da solo vale sei-sette punti di share (mah!).
Infine, da segnalare le parole di Laura Pausini, ospite di Silvia Toffanin a Verissimo:

Sto cercando in tutti i modi di andarci e sono disposta a farlo anche gratis.

Il problema è però legato alla tappa del suo tour mondiale prevista per il 19 febbraio a San Paolo, in Brasile. A tal proposto la cantante romagnola ha detto:

Se la Rai mi mettesse nelle condizioni di poter partecipare prenderei un aereo per arrivare in Brasile giusto in tempo per il concerto. Se proprio non si riuscisse, almeno vorrei fare un collegamento da San Paolo dove canterò in italiano.
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Messaggio Da Laurel-EF Gio Dic 19, 2013 1:59 pm

Un bellissimo articolo di ERNESTO ASSANTE
http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2013/12/17/news/keith_richards_compleanno-73825806/

Keith Richards ha 70 anni, viva la Terza Età del rock'n'roll

Il volto scavato dalle rughe già ci rivela tanto di lui. Il grande chitarrista dei Rolling Stones è consapevole di appartenere a una generazione fortunata: "Non sono ancora esistite delle vecchie rockstar, noi siamo i primi a confrontarci con l'età". Ma se ha chiuso con gli eccessi, non chiude con la musica, che anzi lo esalta ancora e di più...

SI può essere Keith Richards a settant'anni? Certamente sì, basta avere ancora una chitarra elettrica da imbracciare, una sigaretta da accendere, un palco sul quale salire e un riff da poter suonare. Basta poco, in fondo, e questo "poco" serve al grande Keith per festeggiare in piena letizia un compleanno che non sembra quello della pensione.

I riff di chitarra di Keith Richards, semplici e immediati, sempre funzionali alla struttura stoniana delle canzoni, sono entrati nella storia del rock. Da "Satisfaction", l'inno generazionale del 1965, alla hit più recente "Gloom and doom", ecco una piccola ma eloquente galleria delle sue imprese: "As tears go by", "Under my thumb", "Let's spend the night together", "Jumpin Jack Flash", "Gimme Shelter", "Honky Tonk Women" e altre gemme, tra cui "It's only Rock'n'Roll (but I like it)", che racchiude il suo spirito (e quello dei Rolling)

Certo, nonostante le apparenze, il look da pirata, l'aria sbruffona, lo sguardo di quello che ne ha viste talmente tante che tu sai di non poter nemmeno immaginare quante ne ha viste (e fatte), il buon Keith non è lo stesso di qualche anno fa. Non vive più sul lato estremo della vita: quella sottilissima lama di rasoio sulla quale ha camminato senza scarpe, per decenni, non lo vede più passare da molto tempo. Sobrio, attento, Richards ha messo da parte gli aspetti più rischiosi della sua personalità, ma allo stesso tempo non ha smesso di essere un "irregolare". "Mi sono stufato di bere", ci confidò Richards durante un'intervista di qualche anno fa, "era diventata un'abitudine inutile, noiosissima. Bevevo perché dovunque andavo c' era qualcuno che mi offriva da bere, perché tutti si aspettavano che io fossi incapace di vivere senza la bottiglia in mano. Ora ho smesso, e va molto meglio". E lo stesso è accaduto con le droghe: "Ho capito, improvvisamente, che l'esperienza era terminata. Mi ero accostato alla droga con un atteggiamento piuttosto 'antico' , come quello di De Quincey: il mio corpo era un laboratorio e mi piaceva sperimentare cose diverse. Quando inizi pensi che debba durare solo qualche settimana, invece dura degli anni, ma tu lo scopri dopo, quando ci sei dentro. E un bel giorno ti accorgi che tutto questo ti ha portato solo ad essere atteso da una prigione canadese e che tutta l''esperienza' che hai fatto non vale niente, assolutamente niente, perché quando ci sei dentro non sei più capace di capire cosa è bene e cosa è male, e rapidamente finisci per non sapere chi sei e men che meno quello che devi fare".

Jagger & Richards hanno firmato in coppia i più grandi successi dei Rolling Stones, e ciascuno si è ritagliato il suo ruolo, Mick vocalist (e primadonna), Keith chitarrista. È capitato però, più volte, che Richards si prendesse per intero il ruolo di protagonista, microfono compreso. Come in questa "This Place is Empty", dall'album "A Bigger Bang"

Abbandonare il cliché, mettendo in soffitta l'idea che il mondo intero si era fatto di lui, è servito a Richards non solo per arrivare a settant'anni in buona salute, a differenza di altri suoi compagni di eccessi che non ce l'hanno fatta a festeggiarli, ma anche a tornare ad essere "davvero" Keith Richards e a non lasciare andare in malora i vecchi, cari Rolling Stones, come invece stava accadendo negli anni in cui le sue condizioni fisiche e mentali non erano certamente al top. Così, ad ammirarlo la scorsa estate sui palchi di mezzo mondo con la sua band leggendaria, si provava l'effetto di vedere un vecchio ragazzino, ancora in grado di divertirsi e far divertire gli altri, con i suoi compagni di gioco preferiti. Ma un rocker di settant'anni è ridicolo? No, se si guarda Keith di ridicolo non c'è proprio nulla, le sue rughe parlano chiaro, qui di finzione non ce n'è, qui l'elettricità è ancora padrona della scena. Richards incarna - e lo diciamolo chiaro e tondo - il sogno di noi tutti, quello di arrivare alla terza età con lo steso spirito, la stessa energia, la stessa capacità di divertirsi e di comunicare, che avevamo trenta o quaranta o cinquanta anni prima. Richards incarna, più e meglio di chiunque altri, il sogno dell'eterna giovinezza, di uno spirito indomabilmente ribelle che, con il passare degli anni, potrà anche essere diventato più quieto, ma di sicuro non è andato a riposo.

Richards è comunque un vecchio rocker, e a lui la qualifica di vecchio si adatta bene. Vecchio è il suo modo di far musica, rigorosamente e inequivocabilmente legato al blues, unico vero grande amore della sua vita, amore che non ha mai tradito, se non per colpa di Jagger e in qualche fase degli Stones. Vecchio è il suo modo di concepire il mondo, diviso rigorosamente tra buoni e cattivi, dipinto solo in bianco e nero, comprensibile, immediato, senza filtri o inganni. Vecchio è il suo modo di stare in scena, senza fronzoli e stupidaggini. Vecchio è il suo modo di suonare la chitarra, con riff taglienti e indimenticabili. Per dire, insomma, che quel che di vecchio c'è in Richards e nella sua musica è esattamente quello che amiamo di lui, quello del quale non riusciremmo a fare a meno. Non c'è appassionato di rock degno di questo nome che possa immaginare il rock senza di lui, senza il suono della sua chitarra. Ogni rock fan che si rispetti conosce a memoria i riff di Keith e magari li ascolta con discreta frequenza ancora oggi, per non dimenticare da dove si viene e dove si va.

I riff di Keith sono il sangue che scorre nelle vene di ogni rocker del mondo, sono le pietre sulle quali è stato edificato l'edificio rock in cui ci piace abitare, sono i muscoli e le gambe che ci fanno correre, sono la sua carta d'identità e, per noi che li ascoltiamo, in qualche modo anche la nostra. E che lui li possa suonare ancora a settant'anni ci fa pensare che non tutto è perduto e che non è scritto da nessuna parte che il rock sia davvero morto. Il rock è invecchiato, ecco tutto. Ma è pur vero che, come ci dice Keith, "non sono ancora esistite delle vecchie rockstar, noi siamo i primi a confrontarci con l'età".

E Sir Mick? Beh, lui i settanta li ha già passati, e certamente, immaginiamo, sarà il primo a telefonare a Keith per fargli gli auguri. Perché i "glimmer twins", nonostante litigi, tensioni, polemiche, battute, separazioni, sono davvero spiritualmente "gemelli", hanno senso solo quando sono insieme, quando scrivono insieme, quando a vicenda si spingono e si strattonano, eternamente in lotta, eternamente uniti. "Con Mick i rapporti sono eccellenti, tra di noi va tutto molto meglio. Credo che anche Mick abbia capito che non deve competere con le stelle del pop, e che deve fare dei dischi che gli assomigliano, che non può prendere un gruppo qualsiasi di eccellenti musicisti ed aspettare che gli diano lo stesso supporto che riceve dagli Stones. Comunque sia gli Stones sono più forti ed uniti di prima, io e Mick abbiamo riscoperto il piacere di scrivere insieme", ci diceva Richards qualche anno fa. Aveva ragione, perché gli Stones che abbiamo visto festeggiare i 50 anni di attività la scorsa estate ad Hyde Park erano veramente in forma, in sintonia, in grado di essere ancora "la più grande rock'n'roll band" del mondo. Una rock'n'roll band di settantenni. Una cosa incredibile, magari anche ridicola, ma entusiasmante.

Allora facciamo volentieri gli auguri al grande Keith Richards, auguri di una lunga vita, di molto blues, di tanti riff ancora, per far contenti noi vecchi fan e tanti giovani aspiranti rockettari, che tra le corde della sua chitarra vedono ancora un sogno che si può realizzare.
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Messaggio Da Jazzbianco Sab Dic 28, 2013 11:41 am

http://www.lastampa.it/2013/12/28/cultura/idoli-e-fan-club-nuova-linfa-del-pop-Dxc4HVRj9zynBFxasTM08I/pagina.html

Idoli e fan club, nuova linfa del pop
Ci si affida sempre più alle strategie del marketing
e sempre meno a nuovi autori e testi da scoprire

MARINELLA VENEGONI
Tra canzone e società è scoppiato il grande freddo. La forma artistica che per un secolo ha accompagnato amori, rabbie e nostalgie dell’esistenza umana, rischia di giacere per sempre sepolta dall’incuria alla quale l’esplosione delle tecnologie e l’assenza di nuova creatività l’hanno relegata.

Le ultime tre significative notizie dal mondo pop? Il tweet di Justin Bieber che annunciava la pensione precoce, subito smentita dopo una valanga di tweet negativi dei fans; il primo posto nella hit americana di Beyoncé, conquistato (invece che con le solite fanfare) con la sorpresa totale nell’uscita: pura strategia di marketing; infine, il nuovo video di Miley Cyrus Adore You, nel quale la ragazzaccia, cantando en passant, si masturba sotto le lenzuola. Piccoli segnali, dai quali si converrà che il 2013 non si conclude in bellezza per le sorti della musica popolare, sempre più affidate non a nuove canzoni da cantare e nuovi autori da scoprire, ma a birichinate di marketing e marchette tout-court. Strumenti che hanno decisamente preso il sopravvento negli States, nei confronti dei quali noi siamo educande, con l’unica notizia (proprio di ieri) del ritorno al rock di Finardi nell’inedito Come Savonarola.

«Urlo alla luna e al sole/ le inutili parole che nessuno sa ascoltare», canta Eugenio. E il suo sfogo si rivela metafora illuminata di un’arte che ha allevato quasi un secolo di umani, ma ora nel mondo intero non sa catturare più l’immaginario collettivo, privata com’è di quella funzione identitaria che ne ha guidato per decenni il percorso e l’ascolto attraverso il riconoscimento del sé nelle novità che uscivano accompagnate dalla risposta pronta del pubblico, giovanile e non.

Triste verità. L’ascolto si è fatto superficiale e distratto, più che altro si consuma facendo altro. La musica non ha più appeal, è stata sepolta dall’evoluzione della tecnologia che si è mangiata quella che un tempo era l’attenzione al contenuto. Già gli Anni Zero, adesso che si può vedere un poco indietro, si sono distinti per essere stati privi di uno stile proprio, in cui si potesse identificare chi è cresciuto ascoltando i nomi e i titoli che fanno il ricordo sonoro di un’adolescenza e di una giovinezza.

Da lì in poi, la situazione si è ancora sfilacciata, decomposta in mille rivoli di ultranicchia. I filoni che hanno qualche successo, come soprattutto da noi il rap (con i suoi bravi vent’anni di ritardo), vengono sfruttati senza pudore. I film continuano ad essere divisi in belli e brutti, il pop invece no: perché anche il giudizio sulla musica è scomparso, seppellito dal gradimento diretto via Facebook o dal numero di followers su Twitter dell’idolo di riferimento. Tanto seguito, tanto onore. E se esce una porcata, tutti zitti. È una rivoluzione silenziosa ma non per questo meno significativa, che ha due soli contrappesi, ben legati fra di loro: gli idoli acclarati e i fan club.

Gli idoli. In prima fila i figli dei Talent Show, Mengoni in testa (il più votato dai lettori de La Stampa), per passare poi a Emma e Amoroso; Chiara la tengono su con le stampelle e gli spot, ma poco succede. Come fenomeno apparentemente indie, i rapper da Fabri Fibra fino a Salmo, che spuntano come i funghi dopo la pioggia d’autunno. Poi, i nomi della musica tradizionale: in testa Jovanotti il cui successo trova seguito anche fra i più giovani grazie alla capacità rigeneratrice del personaggio; e ancora, certo, Luciano Ligabue il cui team è una (gioiosa) macchina da guerra; e Vasco, che però fila sottotono a una canzone per volta in attesa di piazzare sorprese e stadi esauriti.

Il più vitale? Suonerà strano ma è Franco Battiato, più richiesto che mai in duetti nobilitanti, reduce da un pregevole album dal vivo con Antony, per coltivare nuove esperienze che mettano radici. Gente di primo piano come Samuele Bersani, che è da ascoltare, gode di un seguito tutto sommato ridotto.

Ma la musica popolare è soprattutto, oggi, guerra per bande. Ad essere scomparso è l’ascolto complessivo. Tecniche di marketing conquistato agli idoli stormi di agguerriti membri di fan club, regalando loro l’illusione di far parte di una setta, con piccoli privilegi come i raduni alla presenza della star, doni e soprattutto vendite di gadget, biglietti dei concerti in anteprima. Finisce che si segue un nome solo e si ignora il resto, e se in Rete leggono commenti negativi, i fans piombano giù come gli stukas. In fondo, per avere un’audience assicurata, sono gli stessi artisti che coltivano i demolitori dell’arte che più è stata vicina alla gente comune. Accompagnandone la crescita, i sogni e le speranze nei decenni.
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Messaggio Da Jazzbianco Lun Gen 06, 2014 2:48 pm

http://www.virginradio.it/30055/bruce-springsteen-high-hopes-streaming/

Bruce Springsteen: ascolta High Hopes in esclusiva


Virgin Radio ha l’immenso piacere di presentare in anteprima esclusiva High Hopes, il diciottesimo album ufficiale della discografia del Boss. Fino al 13 gennaio sarà possibile ascoltare su virginradio.it lo streaming audio integrale di tutto l’album e on-air su Virgin Radio in appositi appuntamenti creati ad hoc all’interno della giornata. Bruce Springsteen che per questa occasione, oltre alla fedele E Street Band, ha voluto la presenza di Tom Morello dei Rage Against The Machine (presente in otto brani della tracklist) diventato, parole dello stesso Springsteen, “una musa che ha portato il progetto ad un livello superiore”. In più, per la gioia dei fan storici, in scaletta ci sono anche inediti con Danny Federici (scomparso nel 2008) e Clarence Clemons (scomparso nel 2011). bruce springsteen

Bruce dopo aver passato gli ultimi due anni in tour ha scrutato tra le sue vecchie session e insieme ai compagni di viaggio di sempre, e a quelli nuovi, ha scelto (come già fatto con The Promise) di offrire un nuovo vestito a canzoni che aveva già pubblicato o presentato dal vivo più qualche prezioso titolo altrui da reinterpretare. High Hopes (scritta da Tim Scott McConnell) era già stata registrata nel 1995 nell’EP Blood Brothers. American Skin (41 Shots) è stata scritta nel 2000 e fa parte della tracklist del Live In New York City. The Ghost Of Tom Joad è stato il primo singolo dell’album omonimo del 1995. Harry’s Place fa parte delle session di The Rising (2001), Heaven’s Wall, Down in the Hole, Frankie In Love, This Is Your Sword e Hunter of Invisible Game sono databili tra il 2002 3 il 2008 mentre The Wall è del 1998 ed è nata dopo la visita di Bruce al Vietnam Memorial di Washington sulle tracce di Walter Cichon, un musicista del New Jersey scomparso in guerra. Just Like Fire Would è una cover del 1979 della band punk rock australiana dei Saints mentre la fenomenale Dream Baby Dream è un singolo del 1979 dei Suicide’s. Questo è High Hopes.

Buon Ascolto!
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Gen 08, 2014 12:48 pm

http://xl.repubblica.it/articoli/david-bowie-buon-compleanno-alluomo-delle-stelle/8326/

DAVID BOWIE. BUON COMPLEANNO ALL’UOMO DELLE STELLE


Camaleonte, vampiro, genio pop, sperimentatore eroe glam, alieno venuto dal futuro. 67 anni fa David Bowie, l’artista più influente della storia del rock, cadeva sulla Terra. Per spiegarci l’arte della trasformazione e come essere eroi anche solo per un giorno.

di Christian Zingales - 07 gennaio 2014

C’è un’intervista televisiva rilasciata al presentatore inglese Russell Harty nel 1975, in un pionieristico collegamento satellitare da Los Angeles, dove Bowie annuncia la fine del suo periodo americano, il ritorno in Inghilterra e l’inizio di una nuova fase, che dà l’idea della concezione di trasformismo dell’ artista. Abbandonato lo sgargiante look glam di Ziggy Stardust, Bowie appare sugli schermi come sarà possibile ammirarlo di lì a poco nel film L’Uomo che cadde sulla Terra e sulla copertina del capolavoro Low: capelli rossi pettinati all’indietro, il viso, senza più orpelli, quello di una sfinge post-moderna.
Harty gli dice: «Mi sembra di capire che tu abbia abbandonato l’aspetto glam di Ziggy Stardust, stavolta non hai un guardaroba preciso, non hai studiato un’immagine». La risposta è spiazzante: «Penso che l’immagine che adotterò stavolta sarà me stesso. Sto cercando di inventarmi attualmente». Come se, più che di un’ attitudine al trasformismo, si possa parlare di un work in progress su se stesso: dietro il trucco, un’autoanalisi dai connotati psicanalitici. Nei primi anni di vita di ogni artista ci sono di solito i germi di un sogno che può generare grandi frutti. Per David Bowie, nato David Robert Jones a Brixton nel quartiere multietnico a sud di Londra, l’8 gennaio del 1947, dev’essere senz’altro andata così. La figura della madre, cassiera di un cinema, che rappresenta una sorta di simbolico primo gradino di collegamento sociale con il mondo dello spettacolo. Il padre, che tornato da poco dal fronte aveva trovato un posto da impiegato, incarna il modello dell’uomo vessato da una società di cui Bowie capisce subito la natura spietata (e che spesso racconterà nei suoi testi tingendola di connotati apocalittici), intuendo che per vincere la sua partita non deve farsi incatenare dalla società ma aggirarla, trasformarla in una torre d’avorio dove poter gestire da una posizione dominante il proprio gioco, in una dialettica che contrapporrà la figura dell’ alieno alla deriva dell’alienazione. E poi Terry Burns, di qualche anno più grande, fratellastro nato da un’altra unione della madre, malato di schizofrenia, ricoverato dagli anni 70 in ospedale psichiatrico fino all’85, anno in cui si suicida buttandosi sotto un treno: figura sensibile in vita, sarà lui ad introdurre David a quel mondo che diventerà il suo grande teatro. Bowie è già infatuato dei cantanti rock’n'roll che vede in televisione, tanto che se gli chiedono cosa vuole fare da grande dice che vuole diventare l’Elvis britannico.
Ma poi Terry lo introduce al jazz, alla beat generation, gli trasmette i definitivi strumenti culturali per trasformare il sogno in qualcosa di compiuto. Un rapporto che ispirerà parti dell’alburn The Man Who Sold The World del ’70, o una canzone come Jump They Say del ’93. Sta di fatto che nel ’62 c’è una specie di segnale. Un pugno dell’amico George Underwood gli dilata la pupilla sinistra dando una strana iridescenza, una colorazione bicolore ai suoi occhi. Il volto si fa definitivamente enigmatico e androgino, lo sguardo inizia a indirizzarsi su un palcoscenico dove si fondono vita e arte, rappresentazione ed essere. E quindi ecco l’apprendistato con un attore e mimo come l’inglese Lindsay Kemp ad ottenere qud background tra teatro e danza che diventerà la base del suo modo di interpretare. Ed ecco l’infatuazione per il buddismo prima e per Andy Warhol poi, visto come il modello massimo, la teoria da trasformare in pratica, un grande Dracula da vampirizzare per diventare una macchina di comunicazione pop inedita. Una macchina che marchierà a fuoco la storia del rock. Dopo gli esordi folk la grande fiammata di Bowie arriva con la svolta glam, inaugurata il 5 luglio 1970 alla Rondhouse di Londra in una serata chiamata Implosion, dove gli Hype – così si chiamava la sua band formata allora con Mick. Ronson e Tony Visconti – si esibiscono in abiti da fantomatici personaggi di fumetti. Lui, in mantello, stivali e calze multicolori di lurex, è Rainbow Man. Bowie stava già vampirizzando qualcosa che aveva visto nascere intorno a lui: se va cercata una primogenitura glam bisogna rivolgersi a Marc Bolan. Quello che differenzia però Bowie dagli altri artisti glam è che lui non rappresenta solo la massima spettacolarizzazione, anche commerciale, del fenomeno. Artisticamente e umanamente lui vive in quel momento una reale trasformazione.
Tanto che quando la fantasmagorica saga di Ziggy Stardust raggiunge il suo apice, Bowie dovrà uccidere quell’alter ego sempre più ingombrante perché nella vita reale David iniziava a sentirsi usurpato da Ziggy, e lo stesso concetto di reale, complice una pericolosa dipendenza da cocaina, era sempre più sfuggente, in un percorso che rischiava di approdare alla schizofrenia, una distorsione della personalità a lui familiare. Le testimonianze del periodo trascorso a Los Angeles nella prima metà dei 70 parlano di un uomo sull’ orlo di un crollo fisico e mentale: si racconta di intere settimane trascorse da insonne, di paranoie imbarazzanti e dell’ossessione per la magia nera. Nella sua biografia Backstage Passes, la sua ex moglie Angela racconta ili una telefonata nella quaIe un agitatissimo Bowie raccontava di essere stato rapito da uno stregone e due streghe. E però già nel periodo glam Bowie, radici operaie e portamento aristocratico, toglie le viscere al rock, rendendolo un’infernale stanza di specchi dovrebbe essere agghindata come una prostituta, una parodia di se stessa, dovrebbe essere una specie di clown, di Pierrot. La musica è la maschera che nasconde il messaggio». E il messaggio in Bowie è sottotraccia ma pieno di luce, implicitamente una ricerca che va oltre l’arte, senz’ altro oltre la musica. Quello che incanta di Bowie è come sia riuscito ogni volta a capitalizzare avanguardie, mode e fermenti underground in modo creativo. Non solo in termini musicali, ma di grande resa spettacolare ed estetica, fosse il glam rock all’inizio dei 70, fossero le correnti elettroniche che arrivavano a metà di quel decennio da gruppi tedeschi come Kraftwerk e Neu! o dal dirimpettaio inglese Brian Eno – figura speculare anche nei trascorsi glam nei Roxy Music – nella fase berlinese, l’idea di disco music applicata al pop negli anni 80, finanche quel tentativo che fu il flirt con la jungle degli anni 90. Bowie vampirizzatore di infinite tensioni musicali e poi culturali tout-court, colta e schizofrenica centrifuga in perenne rotazione, capace di mescolare melodramma e decadentismo, esistenzialismo e cabaret, paranoia e futurismo, pop art e iperrealismo rock’n'roll, in un continuo moltiplicarsi di immagini e citazioni.
Bowie che quando parte studia la spigolosità umana di Bob Dylan restituendo, in una sequenza che sembra uno spiazzante cut-up alla William Burroughs o una strana equazione algebrica, il perfetto corredo estetico pre-punk. L’uomo camaleontico che, quasi inseguendo Ia ripetitività mutante delle icone di Andy Warhol, non solo moltiplica alter-ego e proiezioni, Major Tom, Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Thin White Duke, fatte interagire in una partita a scacchi esistenziale con continui flashback e rimandi narrativi – come ancora nell’81 in Ashes To Ashes - ma che poi riflette e confronta la propria immagine in una serie di modelli con cui pure entra in relazione. Fin da quando, intrigato dai risvolti anche più ambigui dell’immagine, va in America e incontra Lou Reed e Iggy Pop. Nel ’73 produrrà del primo un album manifesto come Transformer, e col secondo inizia una serie di corrispondenze pericolose che nascono nella produzione di Raw Power degli Stooges, e proseguiranno nel ’77 con il debutto solista di Pop, The Idiot, sigla d’apertura di una nuova fase che parte da Berlino, in un periodo in cui i due per disintossicarsi dalla droga escono tutte le sere ad ubriacarsi, e però con qualche ricaduta, come spiega la genesi di un pezzo da Low, Always Crashing In The Same Car, ispirato da un episodio reale: Bowie e Iggy che tamponano ripetutamente la macchina di un spacciatore che li aveva truffati. E’ chiaro in queste collaborazioni quanto Bowie dia di ritorno a due artisti da cui pure attinge in partenza tanta linfa vitale. E un vampiro generoso lui. Basta pensare a quanto Iggy assorba dell’interpretazione crooneristica e teatrale di Bowie nel dopo Stooges. E se la collaborazione con Brian Eno nella “trilogia berlinese” (arricchita poi dai tocchi di Tony Visconti) sarà l’alchimia irripetibile tra due alieni, e il precedente assoluto per tutte le commistioni tra pop ed elettronica dal synth-pop degli 80 fino ai giorni nostri, gli incontri con aItri modelli sanno di polvere di stelle, di mitologia, dalla chiacchierata liaison con Mick Jagger, che avrà anche un tardo coronamento discografico con la cover di Dancing In The Streets di Martha And The Vandellas, alla collaborazione che gli anni 80 li apriva, quella con Freddy Mercury e i Queen in Under Pressure, o quel veloce ma pungente meeting newyorchese con John Lennon nel ’75, in Fame. Fino a cose magari meno mitologiche, ma dotate di una tipicità bowiana, le session degli anni 90 con i Pet Shop Boys in Hello Spaceman e con Goldie in Truth, quasi un Ideale, definitivo ritorno a casa.
Nel 2004 Bowie viene sottoposto a un intervento di angioplastica e da allora ci sarà solo una sua apparizione nel 2006, per cui continuano a rincorrersi voci di ogni tipo sui motivi della sua assenza e sulle sue condizioni di salute. Nella distanza dalle scene di Bowie emerge però, più forte che mai, il profilo del grande teatrante che lavorando sulla immagine del rock ha di fatto contribuito a innalzarlo a forma d’arte assoluta, e quello dell’alieno-uomo caduto sulla terra, che per dare senso alla sua vita ha dovuto “inventare se stesso”, e in capolavori come Low e Heroes ha trasformato in suono energie e abissi personali, raccontando l’inevitabile doppiezza dell’esperienza umana.
Ma Bowie non smetterà mai di stupirci e dopo quasi un decennio di assenza, pubblica a marzo del 2013 il suo ventisettesimo album The Next Day salito in vetta in tutte le classifiche internazionali. Il duca bianco è tornato e noi gliene siamo grati.

(da XL 62 gennaio 2011. Aggiornato)
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Messaggio Da Laurel-EF Ven Gen 24, 2014 2:35 pm

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Prince querela 10 suoi fan e chiede un maxi risarcimento

Prince ha fatto partire una querela nei confronti di dieci suoi fan. L’artista sostiene che abbiano fatto circolare del materiale non autorizzato e per questo chiede un maxi risarcimento.

Avete voluto la guerra, e guerra avrete. Questo probabilmente quello che ha pensato Prince, mentre dava il via libera ai suoi legali per avviare la causa contro dieci dei suoi stessi fan. L’artista americano ha infatti querelato dieci persone per aver diffuso senza autorizzazione materiale, brani e video, protetti dal diritto d’autore. Sulla richiesta che l’avvocato Rhonda Trotter dello studio legale Kaye Scholar LLP ha depositato presso il tribunale della California l 16 gennaio, e che si può consultare qui, è possibile vedere la lista degli accusati: di alcuni è leggibile il nome e il cognome, altri invece sono indicati semplicemente con il nickname e la sigla Doe (che in America indica le persone di cui non si conosce l’identità).

È molto probabile che la richiesta di risarcimento danni, che vorrebbe un milione di dollari da ogni soggetto citato, sia solo un atto dimostrativo per intimidire la comunità di fan dell’autore di Purple Rain, e scoraggiare il circolare di materiale non autorizzato, come bootleg e registrazioni video amatoriali. Del resto nel documento sono minuziosamente registrate ben 363 violazioni del copyright. E ora, nel caso che la querela inneschi delle indagini, i dieci fan di Prince potrebbero essere costretti a pagare i danni proprio al loro stesso idolo.

http://www.onstageweb.com/notizie/prince-querela-fan/
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Messaggio Da Jazzbianco Gio Feb 06, 2014 6:52 pm

http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2014-02-06/la-musica-torna-crescere--115653_PRN.shtml

6 febbraio 2014
La musica torna a crescere
di Andrea Biondi

Un segno più che interrompe undici anni di calo consecutivo. Per il mercato discografico italiano il 2013 rappresenta un'annata da ricordare e l'inizio – questa almeno è la speranza degli operatori – di una inversione di tendenza. Il tutto con un caveat: «Siamo in una fase ancora molto fragile dell'economia musicale, che ha visto un calo del 70 per cento negli ultimi dieci anni», spiega Enzo Mazza, presidente Fimi Confindustria.
Certo è che i dati di mercato raccolti dalla società Deloitte per la Federazione industria musicale italiana fotografano un 2013 – anno del matrimonio fra Universal ed Emi che ha rappresentato un segnale forte di consolidamento del mercato – con valori complessivi in risalita per la prima volta dal 2002. Guardando infatti ai numeri del sell-in (vendite effettuate dall'impresa agli intermediari commerciali) il 2013 si è chiuso in crescita annua del 2%, con volume d'affari salito a 117,7 milioni. Dati insomma che rappresentano senz'altro un buon viatico in vista della partenza della 64esima edizione del Festival di Sanremo, con i big del panorama musicale di casa nostra che si esibiranno sul palco del Teatro Ariston dal 18 al 22 febbraio. Anche perché il repertorio italiano risulta cresciuto in valore del 9% in un anno e con nove artisti su dieci nella classifica annuale Top of the music.
In tutto questo, va rilevato come la vera delizia per il mercato discografico nel 2013 sia stata la componente digitale, che da un anno all'altro ha visto vendite complessive in aumento del 18% a 38,14 milioni di euro: il 32% (dal 28% di un anno prima) del totale del business discografico. Un'impennata c'è stata in particolare nello streaming audio, guidato da Spotify, Deezer e Cubomusica. Insomma, i servizi con abbonamenti nei quali per il 2013 ha chiuso con un boom del +182% e vendite balzate da 2,5 a oltre 7 milioni di euro.
C'è tuttavia un'interessante particolarità: lo streaming video ha perso qualcosa. In un anno infatti si è passati da 7,7 a 7,6 milioni di euro di fatturato complessivo (-2%).
Un calo tutto sommato contenuto, ma il messaggio di fondo non è da trascurare, con servizi in subscription che hanno eroso quote allo streaming gratuito sul modello YouTube. Infine, per completare il capitolo digitale c'è il segmento download, che resta il principale rappresentando il 62% del mercato della musica «2.0». Ebbene, per il 2013 album e singoli scaricati hanno portato fieno in cascina, con una crescita del 6% a 23,5 milioni. Al contrario, il segmento tradizionale dei supporti fisici continua invece a segnare il passo, pur rimanendo la parte preponderante del business attestatosi a 79,5 milioni di euro. In ultimo, considerando oltre al sell-in del mercato fisico e digitale, anche i diritti connessi (licenze per utilizzazioni su radio, TV e pubblici esercizi) e le sincronizzazioni, che nel 2013 hanno generato rispettivamente 23,6 e 4 milioni di euro, la crescita del mercato complessivo è del 4% a 145,3 milioni.
«I dati sono positivi, ma occorre considerare che il malato è ancora in prognosi riservata», commenta Andrea Rosi, presidente Sony Music Entertainment, secondo cui comunque «al segno positivo hanno contribuito varie ragioni, fra cui il fatto di avere un anno di uscite discografiche importanti: da Ligabue, alla Pausini a Mengoni». Per il numero uno italiano di un'altra major – Marco Alboni, presidente di Warner Music Italy – dovrebbe indurre a essere fiduciosi per il futuro il fatto che «l'offerta di servizi musicali sta diventando sempre più estesa, approfondita ed estremamente accessibile. Certo, la pirateria continua a essere alta, ma il fatto di avere servizi adeguati è una carta importante da considerare».
Le indicazioni, dunque, sembrano indurre a considerare il bicchiere più pieno che vuoto, facendo scivolare in secondo piano la flessione del mercato dei supporti fisici. «L'inversione di tendenza del 2013 – dice Alessandro Massara, presidente di Universal Music Italy – c'è stata perché l'industria musicale ha affrontato per prima rispetto ad altri il passaggio epocale al digitale. Certo. Non è l'ora di sedersi sugli allori. Ma continuando a lavorare e a spiegare il valore del nostro lavoro, anche contro la pirateria, i risultati continueranno a venire».
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Messaggio Da Jazzbianco Ven Feb 14, 2014 4:30 pm

http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/ho-lottato-col-mio-cognome-canter-anni-delleroina-992259.html

De André: "Ho lottato col mio cognome. Canterò gli anni dell'eroina"


Cristiano De André a Sanremo con due brani duri: "La musica mi ha salvato dalla droga". Interpreterà anche un classico del padre: "Ricordo la notte in cui lo fece ascoltare a mia mamma"


Paolo Giordano - Ven, 14/02/2014 - 08:44
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Poi a un certo punto prende fiato e dice: «Alla fine il mio nome è riuscito a resistere al cognome». Cristiano De André arriva per la quarta volta al Festival di Sanremo (la prima nel 1985) e i suoi due brani sono di rara intensità perché non durano solo tre minuti e mezzo ma cinquantun anni come i suoi.


Invisibili. Il cielo è vuoto. Autobiografici per un figlio d'arte come lui ma anche per una intera generazione. Forse è una tappa decisiva, diciamo inevitabile, nella storia irruente e maudit di un talento forsennato che, come il Sisifo di Camus, ha dovuto fare i conti con il proprio supplizio quasi a dimostrare che «non c'è amore del vivere senza disperazione di vivere».
Bentornato Cristiano De André, il suo ultimo Festival nel 2003 è rimasto tra parentesi.
«Stavolta non arrivo con la bandiera bianca, arrivo con una carriera consolidata e un pubblico che cerca Cristiano».
Due brani. Uno più duro dell'altro.
«Invisibili eravamo noi, i ragazzi di diciotto o venti anni tra la fine dei '70 e l'inizio degli '80, in mezzo allo scontro sociale, alle contrapposizioni ideologiche e alla lotta di classe».
Sì ma perché invisibili?
«Era la Genova dell'eroina, arrivata di prepotenza a incunearsi negli sfasci familiari. Per molti l'eroina era una specie di mamma ideale e consolatoria, non era solo il fascino del proibito o il gusto del vizio».
Lei l'ha conosciuta?
«Diciamo che non mi sono fatto mancare nulla. Ma per fortuna io avevo due genitori aperti con i quali potevo ragionare e discutere anche di argomenti complessi. Altri miei amici no. E poi avevo la fortuna decisiva».
Quale?
«La passione. Facevo il Conservatorio. È stata la mia salvezza. Perché se sei senza alternative, di fronte all'eroina non hai scampo. E infatti questa canzone è dedicata a un mio amico che ci ha rimesso le piume per una overdose».
C'è un verso quasi tremendo: «La mia incudine era un cognome inesorabile».
«Io ero riconosciuto solo come il figlio di De André. La gente parlava con me solo per quel motivo, mi valutava o mi stimava solo in funzione di quello. Ho lottato, ho studiato. Poi l'ho detto a mio padre: “Papà, sono finalmente riuscito a trovare un rifugio a Cristiano”. Allora mi ha portato in tour, mi ha fatto suonare tanti strumenti che fino a quel momento aveva suonato un maestro come Mauro Pagani e il nostro rapporto è cambiato. Se ci fosse ancora, probabilmente avremmo scritto canzoni insieme. Da amici. Purtroppo è mancato quando l'avevo conquistato. E la mia vita è andata per un'altra strada».
Ora perché canta che Il cielo è vuoto?
«Perché noi di quella generazione siamo finiti ad accettare quello che allora combattevamo. Mi sento di vivere in un nuovo Medioevo, siamo tutti più soli, più incazzati».
Dovesse trovare uno slogan per questi anni?
«Anni di paura o poco coraggio. Ed è un momento in cui bisogna trovare la forza di andare a riprenderci l'anima».
Quali altri sforzi ha fatto dopo essersi in qualche modo «liberato» dall'incudine?
«Ad esempio ho smesso di fumare. Fumavo quasi tre pacchetti al giorno. Adesso ho preso quasi venti chili ma va bene così. Non voglio più dipendere da niente e da nessuno. Ci ho impiegato tanto e tanto tempo ma alla fine ce l'ho fatta».
Anche dalla tv si è liberato. O quasi. La si vede pochissimo.
«Vado soltanto dove mi sento a mio agio, quindi quasi da nessuna parte».
Sanremo è anche tv.
«Sono già emozionato».
Nella serata del venerdì canterà un brano di suo padre, Verranno a chiederti del nostro amore.
«È un omaggio a lui, naturalmente. Ma anche a mia mamma. Mi ricordo bene quando l'ho ascoltata per la prima volta. Erano le cinque del mattino, avrò avuto dieci anni, e ho visto mio papà cantarla in salotto a mia mamma. Penserò a questo quando la interpreterò all'Ariston».
Dopo il Festival ritornerà a fare concerti?
«Non dopo il Festival. Ma dopo i mondiali, nella tarda estate. Riparto in tour dopo quello dell'anno scorso che è andato molto bene. Però mica faccio solo quello. Sono un cinquantenne impegnato, mica un pensionato».
Ad esempio?
«Ho scritto la sceneggiatura di un film, del quale preferisco non parlare. E poi un musical, nel quale mi piacerebbe coinvolgere Gianna Nannini. E infine ho in programma di incidere un altro disco con le canzoni di mio padre. Un disco con le sue canzoni incise da un figlio nuovo. Finalmente libero».
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Feb 19, 2014 2:56 pm

http://www.lastampa.it/2014/02/17/spettacoli/festival-di-sanremo/2014/renga-nella-vita-comune-ho-ritrovato-energia-FHnvJIYy0F9IB2HDL5mSFJ/pagina.html

Renga “Nella vita comune
ho ritrovato energia”

Il cantante: “Canto un brano scomodo per una coppia pubblica”


PIERO NEGRI
INVIATO A SANREMO
Le agenzie di scommesse sono concordi: a pari merito con Noemi (preferita dai bookmaker inglesi), Francesco Renga è il favorito per la vittoria finale al Festival che parte martedì. Lui, che di festival ne ha fatti sette (il primo nel 1991 come cantante dei Timoria) e ne ha vinto uno, quello del 2005 (la canzone era Angelo), non si scompone: «Per me Sanremo ha sempre lo stesso valore, serve a far sapere bene e rapidamente a tutti che cosa sto facendo».

Che cosa stia facendo Francesco Renga è presto detto: si sta reinventando. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, se - come racconta lui - per completare l’operazione ci sono voluti molti anni e molti viaggi. «A quattro anni dal mio ultimo album di inediti - dice - ho sentito la necessità di una svolta, nella ricerca, nella scrittura e nel modo di propormi. Ho visitato luoghi nuovi, Londra, Berlino, Miami, Los Angeles, Brasile e Messico, dove tra poche settimane uscirà un mio album, ho cambiato casa discografica e produttore. Ora lavoro con Michele Canova (Tiziano Ferro, Jovanotti, Luca Carboni, Giorgia, Marco Mengoni…, ndr), che mi ha aiutato, anche bruscamente, a pensarmi in modo nuovo. Questo l’hai già fatto - mi diceva - questo non va, lascia perdere certe leziosità. Cose che in fondo pensavo anch’io, senza dirmelo. Ci sono artisti che riescono a non dirsele mai e si circondano di yesman che gli ricordano quanto sono bravi. È un rischio che ho corso anch’io».

Non di sola musica, però, è fatto il nuovo Renga. «In questi 4 anni - racconta - mi sono reimmerso nella vita vera. Ho fatto il papà (ha due figli, Jolanda e Leonardo, dalla compagna, l’attrice Ambra Angiolini, ndr), ho accompagnato i figli a scuola, mi sono confrontato con gli altri genitori, credo di sapere bene come stanno gli italiani. Anche per questo il mio nuovo album si chiamerà Tempo reale: come quasi tutti, sento una necessità di rinnovamento, la voglia di rialzarsi, e credo che ce la possiamo fare solo se ci proviamo tutti insieme. Comunione e redistribuzione sono le mie parole del momento».

Per il nuovo album, Renga aveva raccolto un numero record di canzoni, 76: tra queste, ha scelto la decina del nuovo album, che uscirà a marzo. Malgrado tutto, però, ne mancava ancora una: «Quando è uscito l’ultimo album di Elisa - racconta lui - ho sentito l’impulso di chiamarla per farle i complimenti. È in uno stato di grazia. Complimenti disinteressati, che però, quando Canova mi ha suggerito di chiedere ad altri autori di dare un contributo all’album, mi hanno fatto pensare a lei. Una settimana dopo la mia proposta, mi è arrivata questa canzone, ancora senza titolo, su un amore clandestino, un amore che si nasconde. È un tema scomodo, per un personaggio pubblico che ha una compagna ancora più pubblica di lui, e che dunque finisce sulle pagine di gossip, ma sono certo che ad Elisa questo aspetto non è neppure passato per la mente. I pochi cambiamenti che ho fatto sul testo, sono serviti a rendere ancora più chiaro il punto, molto umano, vicino all’esperienza di tutti, di un amore scomodo che finge di essere solo sesso perché ha paura di riconoscere un sentimento più bello. Vivendo adesso è una canzone molto bella, se andasse in finale e se su quel palco si creasse l’alchimia che si crea quando Dio guarda giù e benedice l’uomo che in quel momento canta, potrebbe fare molta strada». Ed è su questo che puntano evidentemente, anche le agenzie di scommesse.
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Mar 05, 2014 6:44 pm

http://www.lastampa.it/2014/03/05/blogs/on-the-road/crollano-i-dischi-di-sanremo-il-minestrone-era-indigesto-yZuesMq6jTkflvyWRWRJdN/pagina.html

Crollano i dischi di Sanremo
(il minestrone era indigesto)


MARINELLA VENEGONI
Leggo sull'edizione online dell'autorevole periodico musicale "Musica&Dischi" che le vendite dei dischi sanremesi non è che funzionino granché, per usare un eufemismo.
Questo il testo:
"A una settimana di distanza dalla sua conclusione, il Festival di Sanremo - su cui buona parte della nostra discografia aveva puntato tutto - si sta rivelando un fiasco di dimensioni oltre ogni possibile previsione: la tradizionale compilation (quest'anno pubblicata dalla Universal) abitualmente subito insediata al vertice della classifica, questa volta si aggiudica una risicata quarta posizione, e la maggior parte dei titoli cede in graduatoria (con l'eccezione della vincitrice Arisa, che tuttavia non va oltre la seconda posizione né nei singoli né negli album) .
Un risultato assolutamente deludente, che pone molti interrogativi sul ruolo della manifestazione in rapporto alla promozione discografica".
Insomma (per dirla alla Mannoni), vale quel che si diceva in post precedenti. I televotanti non acquistano, oltre a votare le peggio come del resto i giornalisti. Il cast non è stato all'altezza delle aspettative, non ha creato né attesa né entusiasmi, Il minestrone complessivo ha annegato le canzoni, per quel che di buono c'era. Aggiungo, rispetto a Musica&Dischi, che il problema non è solo la promozione discografica. Tutto l'impianto del Sanremone - così com'è diventato da quando la musica è diventata un riempitivo - va rivisto, e alla grande (tanto, vox clamans in desertum) se si intende continuare a farne un contenitore di canzoni e musica popolare. Altrimenti, si passi ai materassi.
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Messaggio Da Jazzbianco Ven Mar 14, 2014 2:45 pm

L'articolo è quello che è, ma conta la notizia  Notizie musicali - Pagina 11 252384 

Rolling stones concerto a Roma il 22 giugno. I biglietti per il Circo Massimo ancora non sono in vendita

Otto anni dopo in italia è ancora Grande rock. Eterno, anzi, perché il 22 giugno, al circo massimo di roma, arrivano i Rolling Stones. Già, proprio così. Mick jagger e soci hanno infatti annunciato le prime date del loro tour europeo che partirà dal pinkpop festival (Olanda) il 7 giugno. Quindi la mitica band inglese sarà al Tw classic Festival (Belgio) il 28 dello stesse mese, salvo fare tappa proprio al circo massimo, dove i biglietti, non ancora messi in vendita, andranno esauriti nel giro di un amen.

Una notizia che ha già scatenato l'entusiasmo dei fan e il tam tam sui vari social network. Ma a gioire non saranno soltanto gli amanti di Keith Richards e compagni, piuttosto anche tutti i tifosi della nazionale di calcio. Perché? perché le "pietre rotolanti" sembrano essere un talismano per gli azzurri del pallone. Nel 1982, infatti, mick jagger e soci suonarono il 12 luglio a torino, lo stesso giorno che paolo rossi, dino zoff e tutti gli altri alzavano la coppa del mondo. E ancora nel 2006, con i rolling stones che due giorni dopo il successo azzurro sotto il cielo di berlino, infiammarono san siro. Che sia di buon auspicio anche per questo 2014? poco importa, per chi ama il rock conterà soltanto essere là, a roma, il 22 giugno.
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Messaggio Da Laurel-EF Sab Mar 15, 2014 9:14 am

Grazie Jazz, sembra che oggi ci sia la conferenza stampa ufficiale (dice Repubblica), sono in crisi mistica, non potevano scegliere data peggiore, speriamo non sia confermata  Notizie musicali - Pagina 11 763579223
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Apr 30, 2014 3:26 pm

http://www.webl0g.net/2014/04/30/emma-marrone-rufus-wainwright-ospite-del-concerto-al-lucca-summer-festival-l11-luglio/

Emma Marrone: Rufus Wainwright ospite del concerto al ‘Lucca Summer Festival’ l’11 luglio


Paola Maria Farina

A pochi giorni dalla sua partecipazione all’Eurovision Song Contest 2014, Emma Marrone annuncia un ospite del tutto speciale per una delle date dei sei concerti speciali che terrà quest’estate, Emma Limited Edition. L’11 luglio, infatti, sarà sul palco con lei, in occassione della tappa al Lucca Summer Festival, il songwriter newyorkese Rufus Wainwright. L’artista ospiterà, a sua volta, Emma all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 3 luglio, a dimostrazione della stima reciproca e dell’amicizia che è sorta tra i due, incontratisi per la prima volta a Venezia ai Cavalchina Awards.

I sei concerti in calendario per Emma Limited Edition (prodotti e organizzati da F&P Group) si svolgeranno in location suggestive e prestigiose e porteranno Emma nuovamente nella nella sua Puglia a distanza di due anni. Queste tutte le date: il 7 luglio all’Arena di Verona; l’11 luglio al Lucca Summer Festival di Lucca; il 19 luglio all’Hydrogen Festival di Padova – Piazzola Sul Brenta; il 22 luglio al Parco Gondar di Gallipoli (Lecce); il 26 luglio al Teatro Antico di Taormina (Messina) e il 28 luglio all’Arena Flegrea di Napoli. I biglietti sono disponibile tramite il circuito TicketOne.

Emma si prepara a rappresentare il nostro Paese alla finale dell’Eurovision Song Contest, che si svolgerà il 10 maggio a Copenhagen e per il quale sarà presentato il brano La mia città estratto dal repack Schiena vs. Schiena (Universal Music), contenente la tracklist originale arricchita da La mia città e le tracce dell’album riarrangiate in versione semi-acustica.
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Messaggio Da ariadne Mer Apr 30, 2014 4:48 pm

http://www.tvblog.it/post/556979/wind-music-awards-2014-martedi-3-giugno-in-diretta-su-rai1-con-carlo-conti-e-vanessa-incontrada-anteprima-tv-blog
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Messaggio Da Jazzbianco Gio Mag 01, 2014 5:33 pm

http://www.andreascanzi.it/?p=1896

Intervista a Ivano Fossati
(Il Fatto Quotidiano, 28.4.2014)

Se la curiosità unica è quella di sapere se ci ripenserà, la risposta non concede spazio al dubbio: no. Ivano Fossati non è né triste né pentito. Non sembra essere mai stato più sereno di così. Mai più dischi, mai più concerti. Lo ha promesso e non è tipo da contraddirsi, casomai uomo da smarcamenti. E’ nella sua casa di Leivi, adagiata sopra Chiavari. Suona ogni giorno, però privatamente. Il pianoforte, le chitarre. Per studio e per diletto. La “piccola bottega di canzoni artigianali” è ancora aperta: due o tre brani l’anno, da donare a chi gli somiglia poco. Il Fossati burbero è sempre stata una mezza verità: lupo solitario, sì, ma a fasi alterne. Per nulla serioso, anzi imitatore insospettabile e dispensatore di aneddoti, che racconta senza sbrodolare in parentesi e rispettando pure lì una partitura sottile. Quella volta che rischiò la vita ad Harlem, quell’altra che conobbe Andy Warhol. E il ricordo di una sbornia monumentale: “A Mola di Bari nel 1971. Con i Delirium, in quei mesi labili di successo clamoroso. Mi stordii di Squinzano, rosso pesantissimo, e mi ritrovai svenuto nel bagno”. I libri di Raffaele La Capria sul comodino, una recensione privata di Stoner (“Bello, ma non così bello come dicono”) e lo stupore lusingato per la stima dei colleghi (“Quando ho rivisto anni fa Claudio Baglioni, mi ha dimostrato di conoscere molte mie canzoni. Temo anzi che le ricordi più di me”). Una bottiglia di Pigato sul tavolo, un pensiero al figlio batterista Claudio (“E’ felice, suona nei musical francesi”) e gli olivi sullo sfondo: “Io non li so curare. Per fortuna ci sono dei ragazzi albanesi meravigliosi che eccellono naturalmente in lavori che noi abbiamo dimenticato”. Eppure anche lui aveva tentato di reinventarsi contadino: “Sul finire dei Novanta. Avevo un cascinale non distante da Novi Ligure. Fabrizio (De André, NdA) sapeva lavorare la terra. Io proprio no”. Al suo fianco c’è la compagna Mercedes Martini, attrice e insegnante teatrale, conosciuta durante le registrazioni di Macramè. Da alcune settimane, edito da Einaudi, è in libreria Tretrecinque. Il suo primo romanzo. La storia di Vittorio Vicenti, o per meglio dire Vic Vincent. Un chitarrista giramondo: “Distaccato e sveglio, divertente e un po’ cinico. Uno a cui, alla fine, non puoi non volere bene”. Il libro si apre con una epigrafe che fotografa il Fossati attuale, per nulla cerebrale e ostinatamente leggero: “Musica pop è l’arte di suonare all’infinito cose che altri hanno fatto prima di te, ma con l’aria di inventarle al momento. Per questo si chiama pop, perché è democratica. Chiunque può metterci le mani, qualsiasi idiota ci può riuscire. Il fatto è che può trascinarti lontano”. Artista aduso a dare “aria a queste stanze” al punto da mutarne drasticamente architettura e scenari, Ivano Fossati è sempre stato un cantautore atipico e suo malgrado: prima la musica, poi – molto poi – i testi.

Nel 1991 avevi scritto Il Giullare. Un racconto piccolo piccolo, eppure te ne eri quasi scusato. Sottolineando che il musicista non deve fare anche lo scrittore.
“Sapevo che, scrivendo Tretrecinque, mi sarei contraddetto. Einaudi mi ha chiesto di provarci. Ho cominciato controvoglia. Doveva essere 200 pagine, è divenuto più del doppio. Evidentemente lo avevo dentro da tempo. E poi adesso la situazione è diversa”.
Non canti più.
“Non esercitando più il mestiere di “cantautore”, potevo scrivere il libro. Nessun doppio lavoro e nessuna pretesa di donare un capolavoro. Alla mia età lo capisci quando una canzone o un libro si reggono in piedi. Lo sai se sono decenti o fanno davvero schifo. L’obiettivo era quello: non farsi male, non naufragare. Scrivere un libro dignitoso”.
Quanto tempo ha richiesto?
“Otto mesi di stesura, tanti viaggi in Inghilterra e Stati Uniti per rispolverare luoghi e strade su cui ambientare parte del romanzo. E quattro mesi di ripulitura. Sin troppo meticolosa. Quando ho telefonato a Einaudi per la millesima volta e ho chiesto di spostare una virgola, mi hanno detto garbatamente: ‘Forse è il caso di chiudere il libro, signor Fossati’. Avevano ragione”.

Chi è Vic Vincent?
“Un insieme di personaggi incontrati. Alcuni miei parenti suonavano nelle navi. C’era poi un batterista inglese: veniva dalla Cornovaglia, era con me nel ’73. Fu il primo a parlarmi di queste orchestre itineranti che si esibivano negli alberghi di tutto il mondo”.
Le presentazioni del libro ti divertono?
“Incontrare le persone sì: non è da loro che mi sono allontanato. Invece il rito della presentazione mi ha già stancato. Chi entra in classifica arriva a farne 200 all’anno, io fatico a raggiungere la decina. L’editoria è davvero in crisi, per vendere devi essere il piazzista di te stesso e non è il mio mondo”.
La musica lo è.
“La musica c’è come prima e nulla è cambiato. Ho solo deciso di non suonare né cantare più pubblicamente. Né dischi, né concerti. Mai più”.
“Solo”? Non è un cambiamento trascurabile.
“Ho fatto la scelta giusta, né un anno prima né un anno dopo. Se mi chiedi se ci ho ripensato, ti rispondo di no. Fin da quando avevo 20 anni, la cosa che più ho amato è stata costruire un disco: stare davanti al mixer e in sala di registrazione. Anche tutto il giorno. Mi sono sempre trovato meglio con i musicisti che con i colleghi”.
E i live? Hai chiuso il 19 marzo 2012 allo Strehler di Milano.
“L’ultimo tour è stato divertente, c’era aria di festa e nessuna malinconia. Spero negli anni di avere imparato il mestiere, ma non sono Gaber: degli spettacoli non ho mai avuto il mito. Non mi mancano i dischi, non mi mancano i live, non mi mancano le promozioni. La discografia è morta. E sono davvero felice di essermi tolto di torno certi personaggi”.

Ci sarà stato, almeno, un periodo lieto.
“Un lungo periodo: quello che va da Pensiero Stupendo a Discanto, quando il mio lavoro mi ha trascinato in tutto il mondo. Dodici anni di scoperte e di meraviglia, in cui la mia vita ha somigliato un po’ a quella di Vic Vincent”.
Discanto è del 1990. E dopo?
“Dopo tutto ha cominciato a farsi terribilmente serio”.
Però scrivi ancora.
“Due-tre canzoni l’anno. Ho più richieste di prima. Rifiuto le proposte di chi vorrebbe che riproponessi i bolsi stilemi cantautorali. Accetto invece le richieste “poppissime”. Noemi e Mengoni, gli artisti migliori usciti dai talent. Pausini. Giorgia. E altri che farebbero inorridire i puristi: per loro la bottega è sempre aperta. Scrivo anzitutto per chi è lontano da me”.

La sensazione è che tu voglia quasi punirti del periodo più cerebrale, quello che ti attirò le critiche di Edmondo Berselli. Un po’ come fai con La mia banda suona il rock: più ti chiedono l’autorizzazione per cover tremebonde e più accetti. Giusto per fare ancora più male a una canzone che detesti.
“Tra i Settanta e gli Ottanta abbiamo vissuto un’anomolia: una terribile tendenza museale. Preferisco il pop. Quell’idea anomala di cantautorato è morta. Se mi arriva una musica di un ventenne che prova a sembrare Conte o De Andrè, mi rattristo. Non è una cosa sana”.
Il pop è vivo?
“Il pop è un limbo del divertimento: un limbo vivissimo in cui amo cullarmi, pieno di obbrobri assoluti ma anche di talenti autentici. Mi diverte seguire anche la musica brutta molto pop. Per esempio Lady Gaga, soprattutto quando suona da sola al piano: lì ti rendi conto che, tecnicamente, è bravissima”.

Gaber ti accusava bonariamente di essere bravissimo, ma di scrivere testi così criptici che arrivavi alla fine e non avevi capito nulla di quello che volevi dire.
“(sorride) Non aveva tutti i torti. Paragonati alle parole durissime sue e di Sandro Luporini, i miei erano testi decisamente enigmatici. Gaber mi cercò per produrre gli ultimi dischi. Ero impegnato ne La disciplina della terra e Not one word, così gli suggerii di affidarsi alle mani di Beppe Quirici. Ottime mani”.

Quirici se n’è andato. Come Carlo Mazzacurati.
“Con Carlo è sempre andato tutto bene. Era una persona divertente e meravigliosa: lo volevi vicino di casa, perché ti faceva stare bene. Scrissi tutti i temi de Il Toro prima che lui girasse anche solo una scena. Usai la sceneggiatura come fosse una partitura da mettere sopra il pianoforte. Poi Carlo mi fece vedere il film e non cambiammo una nota. Il Toro ha vinto tanti premi, ma né quella pellicola né tutta la sua opera sono state ancora sufficientemente apprezzate. Sapevo che era malato, ma non sei mai pronto a certe notizie”.

Sei stato uno dei primi ad apprezzare Paolo Sorrentino.
“Mi colpì Le conseguenze dell’amore e ne scrissi su Repubblica. Lo preferisco quando fa film piccoli, rispetto a progetti forse troppo ambiziosi come This Must Be The Place e La Grande Bellezza”.

Hai visto Quando c’era Berlinguer?
“Non ancora. Conosco Veltroni, ne ho stima. Mi ha chiesto di usare C’è tempo per la scena dei funerali di Berlinguer, ma ho dovuto dire di no. Non ce la facevo a legare quel brano, e in generale qualsiasi mio brano, a un momento così triste. Non avrei resistito a tanto dolore”.

Avevi promesso agli amici che, dopo il ritiro, avresti abbandonato l’Italia.
fossati“Lo confermo. Non ho più nessun motivo per stare qua. Potrei vivere a Guadalupe o ai Caraibi. Se resto in Italia, è perché ho una compagna più giovane che giustamente vuole realizzarsi nel suo paese. Ho una casa a Nizza dove vado appena posso, anche da solo. Nizza ha la capacità straordinaria di girarsi di spalle: non gliene frega niente dell’Italia, di Sanremo, dei canali Rai”.

Però anche la Francia ha i suoi miti cantautorali.
“Sì, ma li ricordano senza retorica e sacralità museale. Quando parlano di Brel, Brassens e Gainsbourg, è come se per loro fossero ancora lì. Persone vive, non mausolei”.

E la politica? La militanza, la partecipazione?
“Ho vissuto tutte quelle fasi, fino alla contrapposizione brutale e poi il riflusso. La non appartenenza. Oggi, quando vedo Renzi, ho la sensazione di uno che smanetta sulle manopole della radio e non si sintonizza mai. Non mi arriva niente di lui. E’ sbiadito, mi pare uno che promette persino più di Berlusconi. Con Renzi fatichi ad avere una posizione chiara perché parla molto, ma a stare attenti scopri che dice pochissimo”.
Dopo il V-Day affermasti che, se all’Ulivo avevi prestato La canzone popolare per poi pentirtene un po’, a Grillo avresti addirittura potuto regalare un’opera intera.
“Credo che Grillo, nel febbraio scorso, si sia trovato davanti una responsabilità enorme e per un po’ neanche lui abbia saputo cosa fare. Però sul Movimento 5 Stelle una cosa voglio dirla: è l’unica grande e autentica novità della politica italiana che ho visto in cinquant’anni”.

Affermazione impegnativa.
“Da cui ne conseguono altre due. La prima è che questa novità è benefica in sé. La seconda è che il M5S fa bene a non accettare nessun accordo. Questo è positivo e fa sì che io sia solidale con loro: che abbia un atteggiamento benevolo. Non vuol dire che la pensi sempre come loro. Sull’euro sono totalmente in disaccordo e ogni tanto fanno sciocchezze tremende. Non so dove porterà la loro intransigenza e fermezza, ma so che è positiva e che mi piacciono”.

Gli altri?
“Gli altri politici sono vecchi. Vecchissimi. Parlano di “sviluppo” e “cittadino protagonista”, usano terminologie sepolte. E’ gente che ancora fissa la telecamera mentre parla. Hanno letto manuali di comunicazione vecchi di trent’anni”.

Per curiosità. Oggi com’è la tua giornata tipo?
“Suono, tutti i giorni. Sto con Merci. Leggo molto. Viaggio. Ecco: mi prendo il mio tempo”

(Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2014)
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Messaggio Da Jazzbianco Mer Mag 28, 2014 5:13 pm

http://mobile.rockol.it/news-597216/musica-e-dischi-chiude-dopo-70-anni-giugno-2014#article

Stampa musicale, dopo 70 anni chiude 'Musica e Dischi'


Dopo settant'anni e 783 numeri (737 in formato cartaceo, 46 in versione digitale) chiude la storica testata musicale italiana "Musica e Dischi", attiva dal 1945: ne dà notizia, nell'editoriale del numero di maggio 2014 appena pubblicato online, il direttore (e figlio del fondatore) Mario De Luigi, spiegando che a giugno cesserà, oltre a quella del mensile, anche la pubblicazione del sito di informazione quotidiana musicaedischi.it e del settimanale "MD online".
"Abbiamo, a malincuore, preso questa decisione non soltanto alla luce della crisi che in questi ultimi anni ha coinvolto l’intero nostro settore (e la nostra testata di riflesso), ma anche e soprattutto prendendo atto che i modelli con cui la discografia italiana si è sviluppata in passato non hanno oggi più senso", scrive De Luigi nel suo pezzo di commiato. "Scomparsa l’industria fonografica – sopravvivono tre majors, passate ormai alla gestione di servizi, e solo rari, coraggiosi casi di produttori indipendenti a rappresentare l’eccezione che conferma la regola – e scomparso il commercio del disco attraverso i punti vendita tradizionali, con la distribuzione fisica ormai affidata a poche catene e alla grande distribuzione, nonché con l’avvento dello streaming a sostituirsi alle vendite online dei prodotti, anche il ruolo della nostra testata non ha più senso. I nuovi modelli di produzione della musica hanno oggi nuovi attori, che possono fare a meno di un veicolo d’informazione specializzata perché ogni dato è già alla fonte disponibile in rete (almeno per chi lo sa individuare), e sempre attraverso la rete i nuovi modelli di fruizione consentono il passaggio diretto del prodotto dal musicista al consumatore, senza bisogno di servizi d’intermediazione: l’industria musicale – non più fonografica – si avvia a esplorare nuovi terreni, in particolare sul fronte del riconoscimento e dello sfruttamento dei diritti, dove spesso la diffusione di notizie mirate agli addetti ai lavori può costituire un ostacolo anzi che uno strumento di sviluppo; per questo preferiamo concludere qui la nostra avventura, senza eccessivi rimpianti e comunque soddisfatti del bilancio raggiunto in questi settant’anni".
Nell'articolo De Luigi ricorda il ruolo di organo "ufficioso" del settore svolto per tanti anni dalla sua rivista ("impossibile in Italia pensare a un ruolo 'ufficiale' "), attraverso la compilazione di annuari, banche dati e soprattutto classifiche di vendita ("attendibili e non viziate dal controllo delle majors") che M&D aveva iniziato a produrre nel 1959 su richiesta di Billboard. E chiude anticipando che l'avventura della testata "non è del tutto e definitivamente terminata", rinviando per i dettagli al prossimo, e ultimo, numero.
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Messaggio Da Ospite Dom Giu 08, 2014 5:03 pm

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/06/07/news/x_factor_puntate_bologna-88336013/#gallery-slider=88341442

X Factor, il sogno passa anche da Bologna: in cento sul palco dell'Unipol arena
Sono i fortunati preselezionati, davanti al palazzetto in centinaia sotto il solleone per godersi lo spettacolo

di LUCA BORTOLOTTI

07 giugno 2014

All’inizio delle selezioni era un sogno per 60mila, ma solo dodici di loro avranno l’X-Factor, quello che serve per accedere all’ottava edizione del talent show. Per dimostrarlo si passa dalle audizioni di Bologna, al via oggi all’Unipol Arena. Tre giornate di selezioni, una trentina di aspiranti future popstar per giorno, mentre per la stragrande maggioranza il sogno era finito già al primo casting tra Roma e Torino. Chi a Bologna otterrà tre sì dai giudici Mika, Morgan, Fedez e Victoria Cabello, a settembre sarà nei bootcamp di Milano, ad autunno in onda su Sky. Proprio come le audizioni di oggi, domani e lunedì. Per questo per i circa 1500 del pubblico dell’Unipol Arena – e per i giornalisti – è vietatissimo fare foto e riprese che possano svelare i nomi dei promossi o bocciati. Impresa ardua, al tempo dei social network.
X-Factor, pubblico con l'ombrello sotto il solleone

Per i concorrenti niente code snervanti, perché chi è arrivato a Bologna oggi è già nell’elite dei migliori. Un centinaio di concorrenti in tre giorni, altrettanti saranno a Roma tra due settimane. Le lunghe attese c’erano state invece a Roma e Torino, quando ancora si era in 60mila. “Le selezioni precedenti le ricordo come fila, fila, e ancora fila: X-Factor è un gran programma di fila”, raccontano i Gate4, trio di cantanti a cappella. Nessuna paura del giudizio, per loro, e una punta polemica per Suor Cristina, la vincitrice del talent concorrente The Voice: “Mah, non mi sembra giusto sfruttare così il condizionamento che il Vaticano esercita sullo stato”.
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Nei camerini, tra tensione e speranze, c’è tempo per cantare, fare le prove e truccarsi, mentre l’Unipol Arena si riempie di pubblico e s’addobba da studio tv. Mentre il pubblico si presta a registrare applausi e fischi, entrano i giudici nel tripudio generale. Soprattutto per Morgan e ancor di più Mika, vero mattatore dell’edizione passata, e ogni suo errore di pronuncia è salutato con un’ovazione. E anche i concorrenti vogliono impressionare soprattutto loro. “Temiamo Mika, anche perché ci spaventa un po’ la prova dell’inglese”, confidano Le Gal, trio rap torinese al femminile, prime a esibirsi. Qualcuno si presenta aggressivo arringando il pubblico, con alterne fortune, qualcuno con vesti estrose come le marinarette delle Les Babettes, altri più timidi e insicuri. Ma non necessariamente è questo a stroncare il sogno, è la voce prima di tutto al vaglio dei quattro. “Eri fredda, ma poi la tua voce ci ha scaldati”, dice Fedez a una delle concorrenti. C’è chi prova ad approfittare del fattore casa, portando un brano di Cesare Cremonini, chi rappa i propri testi su “Happy” o su Beyoncè, chi si presenta col banjo e prova a cavalcare l’onda del nuovo folk-rock lanciata dai Mumford & Sons. A qualcuno va bene, ad altri no. Domani e lunedì si prosegue. Molti di questi ragazzi li rivedremo a settembre in tv. Uno di loro potrebbe essere il nuovo Marco Mengoni.

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